La corriera avanzava lentamente lungo i tornanti della provinciale, sollevando una leggera nuvola di polvere bianca. La strada, ben tenuta, si arrampicava senza fretta sulla montagna, innalzandosi solo di poco rispetto al letto del fiumiciattolo che scorreva in fondovalle. Un tranquillo corso d’acqua, fresco e allegro in quella mattina di giugno già calda, ma una vera furia d’autunno, quando le piogge lo facevano crescere fin quasi agli argini.
La provinciale assecondava l’andamento serpentino della montagna con un’infinità di curve. Enrico, seduto accanto al finestrino, per abitudine le contava una a una, dal ponte di B. in poi: sapeva a quale numero corrispondevano il paese di C. e poi il bivio che portava al F. e così via. Tra sé diceva, ancora quindici curve, ancora sei… finalmente ecco l’ultimo tornante e lassù, su una collinetta, il villaggio e, ancora più in alto, la facciata bianca e assolata della sua casa, con il piccolo fienile accanto, l’albero di melo e, intorno, i boschi, i campi, i viottoli che avrebbe presto attraversato correndo in compagnia di Berto, il suo amico del cuore.
Dopo nove mesi trascorsi tra mura fredde e strade lastricate, la mattina a scuola, il pomeriggio a studiare, non vedeva l’ora di togliersi le scarpe di tela da città e mettersi a saltare, inseguire le galline con il vecchio Argo abbaiante, senza paura di sporcarsi i rattoppati vestiti miserabili che, in paese, nessuno notava ma che non si potevano portare in città.
Nessuno l’attendeva alla fermata. Le sorelle e la mamma erano di certo nei campi o a pascolare le mucche: sapevano che, terminate le scuole, Enrico sarebbe arrivato con la corriera, una di quelle mattine… prima o poi. “Roba che mangia torna sempre a casa” gli diceva la sorella maggiore Sofi, per farlo arrabbiare.
Enrico salutò un paio di ‘barba’, seduti a prendere il sole su una panchina ai margini della strada, e i vecchi risposero senza fare domande, come se si fossero visti la sera prima. In realtà mancava da Pasqua ma era pur sempre del paese, non suscitava curiosità.
Trascinando la sua grossa valigia di cartone piena di libri su per lo stradello, Enrico si avviò verso casa. Era già quasi al melo della corte quando incrociò Adele che tornava dal lavatoio. La ragazzina camminava un po’ piegata su un lato, cercando di tenere in equilibrio sulla testa la cesta grondante dei panni strizzati.
“Com’è andata la scuola?” gli chiese Adele sorridente.
“Bene, bene…ho la pagella…la vuoi vedere?” rispose Enrico, orgoglioso dei bei voti che sanzionavano il suo diritto a vivere, quasi tutto l’anno, lontano dal villaggio.
“Non serve, tanto lo so che sei bravo – disse la ragazza – eri il primo della classe anche quando facevamo la seconda elementare.”
“Andiamo a cercare le lucciole, stasera?” propose Enrico, un po’ mortificato dal rifiuto.
“Che scemo! Le lucciole alla nostra età! – rispose Adele, proseguendo per la sua strada – però domani c’è la Fiera di S. Antonio a C. … ci vieni?”
“Forse” le gridò dietro Enrico.
“Allora ti tengo un posto sul carretto di mio padre” replicò Adele allontanandosi.
Enrico giunse a casa preceduto dall’uggiolare di Argo: aveva annusato a distanza il padroncino, molto prima di vederlo.
La chiave era nella toppa. Enrico entrò e salì le scale. La casa era deserta. Chiamò “Mamma!” un paio di volte, per scrupolo, poi corse nella sua camera, mise gli abiti di tutti i giorni e scese in cucina. Lasciò la pagella aperta, in bella vista, sulla tavola e uscì.
Staccò Argo dalla catena e, insieme, si scapicollarono a gara giù per il sentiero che portava a casa dello zio Maso, il padre di Berto.
Enrico sognava da mesi quel momento. A Pasqua, lui e il cugino Berto si erano azzardati a fare qualche giretto ma senza allontanarsi troppo dal paese perché la neve non era del tutto sciolta, ora invece il sole brillava… avrebbero fatto lunghe spedizioni, da mattina a sera, fino ai pascoli d’alta montagna, girellando tra le malghe in cerca di bossoli, mostrine, elmetti, gavette: immondizie della guerra, passata da quelle parti solo dieci anni prima. Ma, questa volta, si sarebbero divertiti in modo speciale. A settembre, durante una delle loro ultime incursioni, avevano trovato un piccolo tesoro: un Mannlicher nascosto tra le rocce ai bordi di un ghiacciaio in ritiro. Il fucile di Ceccobeppe, ripulito e oliato da Enrico, bravissimo anche nelle esercitazioni di officina meccanica, funzionava a perfezione.
I due cugini si erano fabbricati un tirassegno, una figura umana ricavata da una vecchia tavola di legno con un vero elmetto austriaco in testa, e avevano saccheggiato la riserva di munizioni che il padre di Berto, cacciatore, nascondeva in cantina; per cavarci la polvere da sparo e fare cartucce.
Altro che la Fiera di Adelina! Enrico aveva in mente solo il Mannlicher e non vedeva l’ora di organizzare un’escursione in montagna con il cugino.
Così, avvicinandosi alla casa dello zio Maso, cominciò a chiamare l’amico per nome, sperando si affacciasse alla finestra.
“Berto! Berto! Sono qui, sono tornato!”
Ferma davanti alla porta della casa la zia Giustina si voltò a guardarlo con una strana espressione.
“Dov’è Berto?” chiese Enrico, ansimante per la corsa.
“Dov’è!? – esclamò la donna, asciugandosi col dorso della mano una lacrima scesa sulla guancia – lassù, ecco dov’è…Berto è lassù, da un mese, non lo sai?” piangeva e, con la mano, indicava il campanile del vicino paese che si intravedeva a mezza costa, oltre le cime degli abeti.
Il gesto della zia lasciò Enrico a bocca aperta. Quelli del villaggio salivano al ‘comune’ solo per la messa della domenica oppure… per andare al cimitero che stava accanto alla chiesa. Chi si trasferiva ‘lassù’non scendeva a fondovalle. Mai più. Scappò via piangendo, inseguito da Argo.
Enrico girò per i sentieri del bosco sopra il paese fino a quando non sentì in lontananza le campane dell’Angelus: quel tintinnare allegro gli parve un lugubre saluto che Berto, sepolto accanto alla chiesa, gli inviava. Così tornò a casa, torvo e arrabbiato contro il mondo.
“Che hai?” gli chiese la madre, intenta a sventolare il fuoco.
“Niente – rispose il figlio – togliendo dal tavolo la pagella. Tanto la madre non l’avrebbe degnata di uno sguardo. Per lei studiare era uno spreco di tempo e denaro, i libri e i giornali erano buoni solo per non bruciarsi quando si toglieva il paiolo dal fuoco.
“Allora perché fai quel muso da mulo?” proseguì la madre.
“Berto è morto” disse Enrico, quasi stupendosi per le parole che pronunciava, come se solo ora quell’evento divenisse reale.
“Lo dicevo io a tuo zio di non sposare quella lì, hanno la malattia in famiglia – replicò la madre – e tu sei stato un matto a farci lega, potevi prenderti il contagio!”
“Ma Berto non stava male…mi hai scritto due volte dopo Pasqua, potevi dirmelo!” esclamò adirato Enrico.
“Non te l’ho scritto? Beh, non mi sarà venuto a mente – disse la madre con tono indifferente, mettendo in tavola, davanti al figlio, un piatto di patate ripassate con la cipolla e la pancetta – mangia e fattela passare! È passata anche a tuo padre.”
Enrico si alzò e, senza dire nulla, scese di corsa le scale.
“Ecco cosa impari a scuola – gridò la madre – a fare secondo Matteo!”
Enrico, quando fu all’aperto, comprese subito perché la madre non l’aveva avvertito. Da quando era rimasta vedova contendeva al cognato certi terreni lasciati dal suocero e imputava il malanimo di Maso alla moglie; per questo non voleva che lui frequentasse Berto, la malattia non c’entrava nulla… Berto stava bene… un fratellino era già morto di tisi, ma durante la guerra, quando gli austriaci si erano presi le patate, la legna e le coperte.
Camminando e pensando Enrico si ritrovò oltre il bosco, sulla via per i pascoli. Senza rendersene conto stava andando verso il fienile abbandonato dove era nascosto il fucile.
Entrò nella stamberga. Prese il Mannlicher e qualche munizione: aveva voglia di sparare ma subito si rese conto che, senza l’amico, non si divertiva a fingersi un soldato di guardia in trincea. Ripose di nuovo il fucile, avvolto in una tela verde, e tornò a casa.
Le sorelle lo festeggiarono e pretesero di vedere la pagella.
“Sempre bravo il nostro fratellino” disse Sofi, orgogliosa.
“Un bel mulo!” commentò acida la madre.
Enrico mangiò in silenzio ma lo schiamazzo delle sorelle coprì il suo malumore.
L’indomani mattina salì al paese. Il cancello del cimitero era, al solito, aperto. Cercò inutilmente la tomba di Berto tra le semplici croci di legno dei bambini, ornate da stinte insegne di dolore, poi pensò che il cugino aveva ormai quindici anni, era il solo figlio rimasto in casa e, di certo, si meritava una tomba da adulto. Raggiunse l’altro capo del camposanto e, finalmente, vide un tumulo con una lapide nuova, fin troppo lussuosa in quel luogo di miseria. Berto era lì, tornato Roberto per essere ‘strappato all’affetto dei genitori da un crudele morbo’.
Enrico pensò di scrivere sulla fredda pietra bianca il suo cordoglio e si frugò in tasca cercando una matita, inutilmente. Dopo tutto Berto era stato strappato anche a lui, alle corse nei parati, al sole dell’estate. E questo, dov’era ora, di certo gli dispiaceva tanto quanto non vedere più la mamma.
Però, adesso, almeno era tranquillo: non avrebbe più litigato con il padre che lo voleva portare in alpeggio, non doveva pulire la stalla, caricare il fieno… forse guardava loro che si affaticavano e piangevano sulla terra con un sorriso di pietà… “ha smesso di soffrire”… non dicevano così le vicine, benedicendo con il ramo d’olivo intinto nell’acqua benedetta il babbo, immobile nel suo letto? Sentiva quasi una strana invidia per l’amico che se n’era andato lasciandoli tutti con un palmo di naso:
“Morire a questo modo è come fare uno sberleffo – pensò Enrico – una mattana, come scendere le scale senza mangiare e mandare tutti al diavolo, per correre fuori e non tornare più, finalmente libero.”
Proprio in quel momento la zia Giustina entrò dal cancello. Tutte le mattine andava a trovare il figlio, con qualche fiore fresco di regalo.
“Mi spiace che tua madre non ti abbia avvertito – disse la zia, salutando Enrico con una carezza sulla testa – però qualcosa immaginavo… mi parve strano non vederti in chiesa al funerale… eravate tanto amici.”
“Come fratelli” disse Enrico, abbassando la testa.
“Eh sì, tua madre è fatta a quel modo… beata lei che ha tanti figli – aggiunse la zia, cambiando l’acqua al vaso dei fiori – i miei sono tutti qui.”
Enrico lasciò il cimitero a passo lento. Non tornò verso casa, prese un sentiero che portava ai pascoli. Camminando cominciò a sentire un gran desiderio di rivedere Berto, di dargli una spinta per gioco, di sfidarlo a fare una corsa. L’assenza non sarebbe durata un mese, un anno… era per sempre. Chi andava in America mandava notizie e, a volte, tornava a salutare amici e parenti. Berto invece era partito e basta, non si sarebbero più incontrati.
Pensò di raggiungerlo: certo l’aldilà non doveva essere un bel posto ma tanto male non sarebbero stati, di nuovo insieme. Quante volte aveva sentito i paesani parlare della vita terribile della trincea, sotto il fuoco nemico, nel fango e nella neve: l’inferno in terra! dicevano, eppure ricordavano ancora con gioia i momenti trascorsi con i commilitoni più cari, a cantare e scherzare. Anche loro due potevano stare così, insieme per sempre, all’inferno, ricordando l’allegria delle trascorse estati.
All’improvviso Enrico si trovò davanti il fienile abbandonato. Guardò la porta e decise: sarebbe andato da Berto, in un solo colpo. Salì la scaletta a pioli per prendere il fucile ma frugò invano nel nascondiglio tra le travi: il Mannlicher era sparito. Uscì all’aperto, più deluso che stupito.
Qualcuno, dalla collinetta sovrastante, lo chiamò: “Enrico!”
Si voltò e riconobbe subito l’uomo: era Tone, un cugino del padre, il proprietario del fienile e del pascolo .
“Allora sei tu il cecchino, disgraziato! – esclamò Tone – Vai a casa, vai! e ringrazia Dio che non dico nulla a quella poveretta di tua madre! Ho sentito i colpi, ieri… le armi non sono giocattoli… si rischia la vita! Ma alla tua età cosa vuoi capire della morte!”
Enrico, senza rispondere, prese il sentiero che portava alla sua casa. Per due volte si affacciò a un dirupo che scendeva a strapiombo in valle, sospirando, ma poi riprese il suo viaggio solitario.
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L’immagine è tratta dal sito: http://digilander.libero.it/gipp1/falzarego/tunnel-goiginger.htm
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Rosanna Bogo