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I segnalibri di Sant'Agostino

Il 28 Agosto la Chiesa Cattolica festeggia Sant'Agostino. Noi abbiamo preparato dei segnalibri, utilizzando l'opera di Simone Martini. Potete scaricarli dall'area di download.

 

Archivio per la categoria Racconti

Come salvai Saussure

Fuori era caldo ma le finestre appena accostate e le porte delle stanze spalancate creavano una deliziosa corrente d’aria. Per evitare che le imposte di quel salotto, esposto a sud, battessero rumorosamente, era stato messo a contrasto, tra la battuta e il battente, un libro; il venticello gonfiava la rada tenda color sabbia, l’imposta si apriva sino ad arrestarsi contro il tessuto che si spostava appena un po’ poi il richiamo d’aria la faceva tornare indietro; si sarebbe chiusa rumorosamente se non fosse stato per quel libro.
Ancora e ancora, quel moto perpetuo sembrava essere l’unica cosa viva nella sonnolenza della stanza. Il continuo accanimento contro quelle pagine mi dava fastidio, quasi come un gesto fuor di creanza, ripetuto all’infinito davanti a me.
Mi alzai con pesantezza dal divano sperando che si trattasse di uno di quei libretti, da pochi centesimi, che giornali senza idee regalano a lettori senza idee: l’avrei lasciato lì, mi sarei messo l’animo in pace e sarei tornato a oziare in quella stanza luminosa ma non calda, scambiando rade parole con l’ospite che ero andato a visitare.
Invece riconobbi nel libro, verdolino, un Laterza. Lo presi in mano, spostandolo dal davanzale dove era stato messo con cura e non per la prima volta. L’imposta l’aveva ferito, ripetutamente, ma sempre nello stesso punto; lo sfogliai: la stilettata era penetrata per una ventina di pagine, nella parte anteriore; anche il dorso, però, risultava offeso.
Lo reggevo con una mano, l’altra a tenere l’imposta, ché non sbattesse.
“Ti interessa?” fece il mio ospite, che aveva seguito incuriosito quei miei movimenti. “Prendilo, deve essere qualcosa di uno dei miei figli, lasciato qui da tanti, tanti anni. Ormai non se ne farebbero più di nulla.” La voce si incrinò un po’, i vecchi non vogliono vivere da soli ma spesso devono.
“Aspetta, torno subito” rimisi il libro al suo posto e uscii dalla casa lasciando il portoncino d’ingresso aperto; il riscontro d’aria si fece più forte. Dal mio appartamento, lì, sullo stesso pianerottolo, presi un gancetto di plastica, uno di quei dispositivi che tenevo in casa perché facessero, ma senza strazio, lo stesso lavoro del libro, e rientrai dal mio ospite.
“Ecco, vedi, usa questo” e gli mostrai come utilizzare il gancetto: la finestra restava socchiusa ma bloccata: non c’era più neppure il rischio che una folata di vento più forte la facesse impigliare nella lunga tenda.
“Il libro…” lo allungai verso il mio ospite che era ancora seduto in poltrona.
“No, tienilo tu, io che me ne faccio… so che anche a te i libri piacciono.”
Quanto dolore e rimpianto c’erano in quell’«anche».

 

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fuchs

Il Progetto Creazione

Monsignor Rudolph bussò educatamente alla porta: due colpi secchi, come d’abitudine. Attese qualche secondo prima di girare la maniglia ed entrare nello studio; non doveva aspettare il “Transite!”, come da protocollo: il Santo Padre gli aveva accordato questo permesso speciale, era il suo segretario e il prelato più vicino al Pontefice godeva sempre di qualche piccolo privilegio.

Il Papa era seduto in poltrona e leggeva, come di solito a quell’ora. Una disciplina ferrea e le abitudini di tutta una vita regolavano ogni sua attività; il sant’uomo sollevò lo sguardo verso il segretario. “Siamo pronti, Santità” rispose il monsignore allo sguardo interrogativo; il Papa inserì un segnalibro nel volume che stava leggendo, ma non lo chiuse, si limitò a spostare il braccio girevole del leggio per potersi alzare dalla poltrona dove stava sprofondato da più di un’ora. Rileggersi Sant’Agostino era per lui un vero piacere e da pochi minuti aveva affrontato il breve scritto “De Divinatione daemonum”: tre o quattro paginette ma quanta densità in quello scritto!

Piegò gli occhiali da lettura e li ripose nella custodia damascata che infilò con cura nella tasca della pesante giacca da camera. Facendo forza sulle braccia, le gambe ormai non lo reggevano più, si alzò. Vide che monsignor Rudolph, preoccupato, si era mosso con l’intenzione di dargli una mano ma lo bloccò con un’occhiata. Doveva farcela da solo: cos’erano le sue misere sofferenze in confronto di quelle che nostro Signore aveva provato per noi?

Finalmente in piedi, scivolò stancamente le pantofole rosse sul grande tappeto dello studio, avviandosi verso la porta, seguito da vicino dal buon segretario che, ormai da mesi, accompagnava con lo sguardo titubante ogni passo che lui faceva, pronto a dargli una mano o a liberarlo di qualche inciampo, se ne fossero presentati.

La mano del Pontefice, ancora asciutta e ferma, chiuse la grande porta; ci fu un rimbombo per tutto il vasto corridoio che percorsero poi lentamente in tutta la sua lunghezza sino alla porta dell’ascensore; quando ne furono all’interno fu il segretario a premere il pulsante del piano.

“Non ha preso il bastone, Santo Padre” gli rimproverò, dolcemente, il fedele segretario “dobbiamo fare un lungo percorso a piedi…”

“Lo so figliolo ma da quello che mi dite non sarà questa la maggior fatica della giornata”. Il Vecchio affrontava la prova con un distacco e una serenità che stupivano il giovane prelato. “Che grand’uomo – pensò tra sé, con ammirazione – io in questa situazione, il Signore mi perdoni, avrei tanta paura, e non solo per me”. Continuarono lentamente a scendere: lo sguardo del Papa era fisso sulla pulsantiera, quello del segretario passava dal volto del Vecchio a un punto indefinito sopra le Sue spalle. “Sta pregando – pensò il Papa – e sicuramente sta pregando per me: è un buon figliolo.”

La porta dell’ascensore si aprì lentamente; uscirono e si misero a percorrere un altro corridoio, interminabile.

“Che pace, che silenzio qui dentro. E che agitazione, Signore, nel mio cuore! Non sono degno…”

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Dr J. Iccapot

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Un’infanzia dorata

Quando penso alla mia infanzia, a quelle briciole di ricordi che iniziano coi primi anni di vita e finiscono con l’ingresso alle scuole medie, vedo un’indistinta luce calda e dorata e sento di aver vissuto un periodo di calma e di pace, senza dolori, senza affanni: il più bello della vita. Ho la vaga percezione di quel benessere, di quell’aura speciale che mi avvolgeva e mi proteggeva dal mondo e dai pericoli, dal dispiacere e dal male.

Intravedo quegli anni come in una immagine sfocata, ne rammento pochi episodi ma ho la sensazione piacevole di un periodo unico, magico, luminoso, proprio come una giornata di sole alla fine di maggio.

C’è una luce calda che entra nella stanza e la illumina, è la luce del sole del primo pomeriggio. I raggi non entrano direttamente a ferire la stanza, le persiane devono essere leggermente accostate ma di fronte non ci sono palazzi che bloccano la vista e se mi mettessi in piedi su una sedia, proprio di fronte alla finestra, per quanto piccino sono sicuro che vedrei la pineta e il mare.

Il sole entra nella stanza e io sono attratto dalla sua luce, guardo verso la finestra; c’è anche una tenda chiusa che fa da schermo ma con poca convinzione. E’ una bella tenda, ha il colore della paglia, una trama larga che fa passare quasi tutta la luce e la indora ancora di più.

Mi piace quella tenda, che la mamma ama tanto, perché ha un cordone che termina in una buffa nappa e io ho imparato da poco a usarlo: tirando il filo da una parte la tenda si divide piano piano a metà, il tessuto traforato si fa più serrato, le plissettature si avvicinano, nella stanza entra un po’ più luce. Se tiro dall’altra parte la tenda si riunisce, come se due dei miei soldatini si mettessero, braccia e spalle larghe, a guardia della finestra per impedire a chiunque di entrare e di uscire.

Rido, quando faccio questo gioco che ho appena scoperto, e anche la mamma ride e allora io rido ancora di più.

Guardo la finestra: entra la luce, vorrei andare verso quella luce, sono agitato.

Mi piace stare nella camera dei miei genitori: ci sono tante cose strane, lì dentro. C’è un armadio grandissimo che nasconde e fa ricomparire i vestiti, un settimino più alto di me con dei cassetti dai quali la mamma tira fuori le mie magliette, i pantaloncini, i calzini. Sono mobili strani, bombati, curvilinei, di un legno di castagno scuro, quasi nero; mi fanno un po’ paura ma per fortuna le pareti sono bianche e riflettono la luce che entra dalla grande finestra. E poi sul settimino ci sono cose buffe. Ce n’è una con una curiosa nappa, quasi come quella del cordone delle tende ma fatta a palloncino. La mamma me l’ha fatta usare: lei teneva in mano una specie di bottiglietta tutta vestita come fosse un bambino piccolissimo e io ho potuto stringere quella nappa che era morbida morbida e ogni volta che la stringevo c’erano tante goccioline profumate che uscivano dalla bottiglietta e sparivano magicamente nel vestito della mamma.

Sono in piedi sul lettone dei miei genitori e se guardo dalla parte opposta alla finestra vedo bene il piano dove sono allineate la bottiglietta, la foto di un bambino con la mano in quella del suo babbo e una scatola di legno a mezzaluna che fa tic tac; dietro c’è uno specchio che riflette la mia testa, bionda bionda, e la mia faccia imbronciata; preferisco però guardare dove c’è la finestra, dove c’è il sole.

Saltello sul lettone dei miei genitori; ero dentro il letto ma ne sono uscito all’improvviso e ora saltello, saltello sul materasso. Nella stanza non sono solo, non ci sarei mai potuto entrare, c’è sicuramente un adulto con me.

Salto sul letto ma non sono tranquillo, ho paura e guardo verso la luce. Oltre la tenda, oltre i vetri della finestra, al di là delle persiane un po’ accostate c’è il cielo, c’è l’aria, l’aria fresca dove ho visto volare le rondini; chissà come stanno bene le rondini nel cielo, in tutto quel mare d’aria, come respirano felici!

Io non sto bene, invece; non so cosa mi succede, salto disperatamente sul letto; c’è il babbo con me, ora lo so. Dovrei essere tranquillo invece sono terrorizzato; salto sul letto, verso il bordo, verso la finestra; ho caldo, tanto caldo, devo essere paonazzo.

Una mano mi afferra, un braccio forte mi impedisce di andare avanti; non saltello più, non ne avrei neppure la forza.

Un’altra mano mi prende per la gola, mi stringe, non capisco cosa succede; è il babbo, mi ha fatto voltare verso di sé,  non vedo più la finestra, sono spossato e riesco appena a stare in piedi, intorno a me si sta facendo buio.

La mano stringe il mio collo e, all’improvviso, la caramella che mi ostruiva la gola schizza fuori dalla bocca, cade sulla coperta, rotola coprendosi di peletti e atterra silenziosa sul tappeto di lana che è ai piedi del letto. Riprendo a respirare.

Stavo soffocando, me lo ricordo bene anche se avevo poco più di tre anni, e sarei morto se non fosse stato per la mano del babbo venuto a darmi di nuovo la vita.

 

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Dr J. Iccapot

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La calda estate del commissario Sapìa – 5

Quinta e Ultima Parte

Qui la Quarta Parte

“Vede, dottor Silvestri – disse il commissario, tamburellando distrattamente sul piano della scrivania come se quell’interrogatorio fosse per lui solo una noiosa formalità – le bugie che ha raccontato al mio collega, il dottor Magliana qui presente, sono state non solo inutili ma controproducenti: abbiamo raccolto numerosi indizi che la collegano alla morte di Lina Belli, non ultime proprio le sue fandonie, e siamo arrivati alla conclusione che lei ha spinto la ragazza giù dalla finestra… forse perché era diventata un’amante scomoda oppure per gelosia, magari la vittima intendeva lasciarla… ma, se vuole, può tentare di convincerci del contrario.”

Il dottore rimase in silenzio. Aveva la fronte corrugata, un’espressione tesa e concentrata: sembrava intento a soppesare i pro e i contro di quello che stava per dire.

“E’ una follia! – esclamò all’improvviso – io amavo Lina, davvero, però ultimamente era diventata troppo esigente: pretendeva che divorziassi ma così avrei perso quasi tutto e poi, con mia moglie, voglio rimanere in buoni rapporti per via dei bambini… magari tra un po’, con i figli più grandi, l’avrei anche sposata, ma ora no, non ero disposto a rovinarmi per lei… quella notte ci siamo dati appuntamento nella stanza del secondo piano, mi disse che poteva assentarsi solo per un quarto d’ora, era stanca dei nostri incontri clandestini e non intendeva più trascurare il suo lavoro…abbiamo litigato…Lina mi ha mandato al diavolo e se n’è andata.”

“Certo, ma lei l’ha seguita – aggiunse Magliana – e, in un impeto d’ira, l’ha spinta giù dalla finestra! Magari senza rendersene conto: se collabora e confessa potrebbe cavarsela con un’accusa di omicidio preterintenzionale.”

“Io Lina non l’ho neppure sfiorata, lo giuro – esclamò Silvestri, quasi in lacrime – l’indomani intendevo troncare il rapporto, ero deciso a lasciarla libera: a ventiquattro anni doveva fare la sua vita… poi quel colpo terribile! mi sono affacciato a una finestra del corridoio per vedere cosa era successo… un degente di Psichiatria, tre anni fa, ha eluso la sorveglianza e si è buttato di sotto nello stesso punto: quando ho visto il corpo di Lina sul tetto del primo piano mi si è ghiacciato il sangue. Volevo scendere per soccorrerla, anche se chi cade da un’altezza del genere difficilmente sopravvive, però ho sentito qualcuno che correva per le scale, sopra e sotto: ho avuto paura e sono tornato nella mia stanza. Beh, tanto non sarebbe servito a nulla: l’autopsia ha stabilito che è morta subito.”

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Rosanna Bogo

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La calda estate del commissario Sapìa – 4

Quarta Parte

Qui la Terza Parte

Alla metà d’agosto Sapìa tornò in servizio. L’incidente del pozzo era ormai archiviato, si sentiva di nuovo bene, addirittura meglio di prima, più riposato e sereno.

La mattina della dimissione, per evitare inutili sforzi, aveva lasciato il reparto su una sedia a rotelle spinta con insolita energia dalla moglie. Edda sembrava impaziente di riportarlo a casa e ben presto Sapìa comprese perché: accanto all’ascensore, con un gran mazzo di fiori in mano, lo attendeva Orlando, il suo poco amato fratello. Una ‘sorpresa’ organizzata dalla moglie!

“Guarda che cammino ancora e posso darti un cazzotto in testa quando voglio – esclamò Sapìa, notando il sorrisetto ironico di Orlando – e i fiori li puoi portare sulla mia tomba, se riesci a seppellirmi! ”

“Certo, certo, farò come vuoi tu! figurati se mi metto a discutere con uno che è appena uscito dal reparto di Psichiatria” rispose ridendo il fratello.

Informato della disgrazia, Orlando si era precipitato in città, proponendo alla cognata di ospitare ‘l’invalido’ nella dimora dell’amico Luigino Bertoni per tutta la durata della convalescenza. Edda aveva immediatamente accettato: da tempo sognava di vedere la lussuosa villa a picco sul mare che il marito le aveva descritto con tanta dovizia di particolari. Nessuno si preoccupò di ottenere il consenso dell’interessato.

Sapìa, in un altro momento, si sarebbe battuto con le unghie e coi denti per mandare all’aria il progetto ma era un po’ confuso e, stranamente, trovava Orlando meno insopportabile del solito.

La convalescenza al mare, accettata per debolezza, si rivelò una piacevole vacanza: Luigino, il padrone di casa, era un giovanotto simpatico e Orlando ormai si comportava come un tranquillo signore di mezza età; quanto alla moglie sembrava addirittura ringiovanita.

Così, contrariamente al solito, Sapìa tornò in ufficio di malavoglia.

Lavoro arretrato non ne trovò. Magliana mandava avanti il caso del benzinaio magrebino con metodica lentezza ma aveva scoperto una nuova pista: la vittima frequentava una ragazza tunisina e la moglie tradita, spalleggiata dai familiari, aveva “proferito ripetute minacce di morte all’indirizzo del coniuge di fronte a testimoni.”

“Insomma potrebbe essere un delitto d’onore: movente classico… c’è altro?” chiese Sapìa.

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Rosanna Bogo

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La calda estate del commissario Sapìa – 3

Terza Parte

Qui la seconda Parte

“Siamo arrivati! Questa è Psichiatria – disse l’infermiere, aprendo con la chiave che teneva appesa al collo una grande porta a vetri – serata tranquilla, commissario, non deve preoccuparsi!”.

Allungato sulla barella Sapìa commentò la confortante notizia con un secco “ah!”: non si sentiva più tanto propenso ad accettare quell’insolita sistemazione notturna.

“Dovevo chiedere di rimanere al Pronto Soccorso – pensò, rammaricandosi di essere sempre troppo accondiscendente con il prossimo – oppure fare una chiassata e pretendere un letto come si deve.”

I neon del corridoio erano abbaglianti, nelle camere invece nessuna luce, solo l’ultimo chiarore del tramonto che baluginava stancamente tra le stecche delle serrande socchiuse e una pallida lampada di sicurezza; sdraiate nei letti s’intravedevano siluette immobili, pazienti con gli occhi fissi al soffitto oppure immersi in un rassicurante sonno di sasso.

“Fuori è ancora giorno, saranno al massimo le nove e un quarto – pensò Sapìa, sbirciando nelle stanze – qui si va a letto con le galline…o forse non ci si sveglia neppure!”

Alcuni ricoverati, probabilmente i meno gravi, guardavano la televisione in una saletta; un uomo grosso e cupo, a piedi scalzi, percorreva il corridoio da capo a fondo strisciando lungo le pareti.

“Sindrome del criceto sulla ruota” pensò Sapìa, sforzandosi di vedere quella piccola ‘fossa dei serpenti’ in una luce meno inquietante.

“Non deve alzarsi, commissario – disse l’infermiere, aiutando il suo paziente a spostarsi dalla barella al letto – cerchi di riposare e, per qualsiasi cosa, chiami il personale di turno: questo è il pulsante.”

Rimasto solo Sapìa si guardò intorno: quando entrava in un luogo sconosciuto aveva l’abitudine di “fare il punto’ e, in quel momento, un check in gli parve quanto mai opportuno. L’oscurità, nel frattempo, era diventata penombra.

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Rosanna Bogo

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La calda estate del commissario Sapìa – 2

Seconda Parte

Qui la Prima Parte

Sapìa salì le scale della Questura in compagnia del commissario Strambi mentre il campanile della vicina chiesa batteva le sette.

“Dormito bene?” chiese al timido Oscar, tanto per attaccare discorso

“Un inferno, dottore – rispose Strambi, un po’ stupito dalla cortese domanda – mi sono assopito alle tre e alle cinque ero già sveglio.”

“Anch’io alle cinque ero in piedi…ma almeno potremo tornarcene a casa prima, con questo caldo non è una cattiva idea.”

“Io veramente sto meglio in ufficio…almeno ho l’aria condizionata – disse Strambi – la mia stanza è a tetto…fredda d’inverno, calda d’estate.”

“Ma perché non si trova un appartamentino più comodo?” chiese Sapìa, aprendo bruscamente la porta del suo ufficio.

“Non potrei mai lasciare la povera signora Iole, la mia padrona di casa…ha quasi novant’anni!” rispose Oscar, entrando nel suo sgabuzzino.

Sapìa scosse la testa: l’inerzia masochista del giovane collega era invincibile.

Seduto alla scrivania passò un’ora a sistemare i foglietti con gli appunti del suo ultimo caso: un giovane benzinaio marocchino ucciso giovedì notte. Tre colpi al torace, uno alla testa, un po’ troppo per una rapina finita male. Non si potevano escludere altri moventi: traffico di droga, regolamento di conti tra bande… il morto era pregiudicato.

“Se fossimo in Sicilia negli anni Sessanta – borbottò Sapìa – potrei seguire la pista passionale e risolvere il caso in quattro e quattr’otto… le corna sono la miglior risorsa dell’investigatore accidioso: scava scava, si trovano sempre.”

Lui però non si considerava pigro, agiva con lentezza ma solo perché non voleva prendere abbagli che, per gli interessati, potevano trasformarsi in immeritati soggiorni al fresco.

“Diceva bene lo zio Carlo: uno schiaffo, quando l’hai preso, non te lo toglie neppure il Papa” mormorò Sapìa guardando il ‘pizzino’ della moglie del morto: giovane, piacente, vestita all’occidentale, il tipo di donna che non passa inosservata e può dare fastidio tanto ai bacchettoni quanto alle altre femmine.

Stava ancora valutando l’opportunità di indagare sul comportamento della vedova magrebina quando la porta dell’ufficio all’improvviso si spalancò, come per una folata di vento. Il commissario quasi si sdraiò sulla scrivania per impedire ai suoi foglietti di volare via o confondersi tra loro.

“Cosa fa, Magliana, si esercita per le irruzioni?!” esclamò rabbioso.

“Mi scusi, dottore, sono entrato di corsa – disse tutto d’un fiato il commissario Magliana – che nottata! un vecchio matto si è asserragliato in casa sparando fucilate.”

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Rosanna Bogo

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La calda estate del commissario Sapìa – 1

“No, così proprio non va – disse il Questore Torrisi, scuotendo la testa con aria falsamente dispiaciuta – è un vero disastro!”

“Ma io ho studiato, professore – esclamò Sapìa allungando una mano per afferrare il foglio protocollo che Torrisi gli agitava sotto il naso con aria di rimprovero – glielo giuro!”

“Le solite scuse…ma non si vergogna, alla sua età?” disse ironico Torrisi. La stanza si riempì di risatine soffocate. Sapìa si voltò per cogliere in fallo i compagni spiritosi ma l’aula era vuota: un desolato parterre di banchi e sedie tra quattro mura spoglie.

Com’era finito in quella situazione? Sapeva di essere preparato… andava sempre preparato agli esami. Magari aveva commesso qualche errore ma nulla di veramente grave. Proprio perché non si sentiva un genio s’impegnava sempre al massimo.

“Ci deve essere uno sbaglio – disse con voce ferma e risentita – forse quello non è il mio compito… controlli il nome.”

“Vuole insegnarmi il mestiere? Tutti così, vi arrampicate sugli specchi pur di portare a casa la sufficienza! Guardi qui… Italo Sapìa 5° B… per caso non è la sua scrittura? e questa è la prima pagina… vede, non ha tradotto neanche una parola!” esclamò trionfante Torrisi, girando di nuovo il foglio. Aveva in mano un compasso e, infilata la punta proprio al cento della ‘o’ di Italo, disegnò un cerchio enorme che conteneva nome e cognome.

“Ecco quello che si merita per questa versione – aggiunse Torrisi, osservando compiaciuto la sua opera – uno zero, tondo tondo!”

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Rosanna Bogo

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La chiave

Lei in  un fresco vestito rosa antico con dei sandali bianchi. Lui con un completo avana e dei classici mocassini marroni. Sono sul treno per raggiungere la figlia nella città capoluogo. Un viaggio che fanno spesso da quando tanti anni fa la loro piccola prese coraggio e si trasferì lontano.

Il viaggio corre lento come ogni volta e per scacciare la noia i due sono forniti di quotidiani di ogni genere: ne posso contare almeno quattro di espressione politica simile e un inserto di cui ormai sono sempre più pieni i giornali.

Si scambiano poche parole sui vari articoli che stanno leggendo e sul viaggio che ogni volta sembra non finire mai. Poi l’uomo ha un piccolo sussulto nell’accorgersi dell’etichetta della lavanderia in bella vista cucita alla manica sinistra della giacca. E’ un po’ titubante nel confessare all’antica moglie il misfatto già conoscendo quella che sarà la sua reazione.

Certo non può stare tutto il giorno così e se lei lo dovesse scoprire da sola, la reazione sarebbe ancora peggiore, così allunga la sinistra e mostra l’etichetta alla moglie che con uno sguardo irritato, che afferma ancora una volta nella loro vita la superiorità della donna, cerca il modo di togliere quella bruttura. Tenta di strappare delicatamente l’etichetta ma ogni sforzo è evidentemente vano, l’etichetta non ha intenzione di lasciare quella manica. Così l’uomo azzarda un’altra disperata azione per migliorare la sua posizione e tenta di strappare con forza quell’ignominia dal suo braccio. Lo sguardo della moglie si incupisce ancora di più pregustando già le parole terribili che lancerà contro il maldestro marito che si troverà presto due buchi sulla manica. Nel frattempo cerca nella borsa qualcosa che possa recidere la cucitura che unisce l’etichetta alla giacca.

Ma il marito la precede ed un lembo dell’etichetta già volteggia libero mostrando un piccolo buco nella manica. Insignificante per lui, raccoglie tutto l’astio della donna che tenta di recuperare l’irrimediabile azione. Poi nel mazzo di chiavi che aveva tirato fuori dalla borsa sceglie quella che secondo lei potrà recidere più facilmente quell’ultimo mazzetto di fili e comincia a tagliarlo. Finalmente libero, l’anziano signore si sente sollevato ma sa che lo sguardo e il pensiero della moglie è ancora nero.

All’improvviso la mano di lei si allunga alla ricerca dell’antica compagna per un’affettuosa riconciliazione.

 

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Juan

Il Mannlicher

La corriera avanzava lentamente lungo i tornanti della provinciale, sollevando una leggera nuvola di polvere bianca. La strada, ben tenuta, si arrampicava senza fretta sulla montagna, innalzandosi solo di poco rispetto al letto del fiumiciattolo che scorreva in fondovalle. Un tranquillo corso d’acqua, fresco e allegro in quella mattina di giugno già calda, ma una vera furia d’autunno, quando le piogge lo facevano crescere fin quasi agli argini.

La provinciale assecondava l’andamento serpentino della montagna con un’infinità di curve. Enrico, seduto accanto al finestrino, per abitudine le contava una a una, dal ponte di B. in poi: sapeva a quale numero corrispondevano il paese di C. e poi il bivio che portava al F. e così via. Tra sé diceva, ancora quindici curve, ancora sei… finalmente ecco l’ultimo tornante e lassù, su una collinetta, il villaggio e, ancora più in alto, la facciata bianca e assolata della sua casa, con il piccolo fienile accanto, l’albero di melo e, intorno, i boschi, i campi, i viottoli che avrebbe presto attraversato correndo in compagnia di Berto, il suo amico del cuore.

Dopo nove mesi trascorsi tra mura fredde e strade lastricate, la mattina a scuola, il pomeriggio a studiare, non vedeva l’ora di togliersi le scarpe di tela da città e mettersi a saltare, inseguire le galline con il vecchio Argo abbaiante, senza paura di sporcarsi i rattoppati vestiti miserabili che, in paese, nessuno notava ma che non si potevano portare in città.

Nessuno l’attendeva alla fermata. Le sorelle e la mamma erano di certo nei campi o a pascolare le mucche: sapevano che, terminate le scuole, Enrico sarebbe arrivato con la corriera, una di quelle mattine… prima o poi. “Roba che mangia torna sempre a casa” gli diceva la sorella maggiore Sofi, per farlo arrabbiare.

Enrico salutò un paio di ‘barba’, seduti a prendere il sole su una panchina ai margini della strada, e i vecchi risposero senza fare domande, come se si fossero visti la sera prima. In realtà mancava da Pasqua ma era pur sempre del paese, non suscitava curiosità.

Trascinando la sua grossa valigia di cartone piena di libri su per lo stradello, Enrico si avviò verso casa. Era già quasi al melo della corte quando incrociò Adele che tornava dal lavatoio. La ragazzina camminava un po’ piegata su un lato, cercando di tenere in equilibrio sulla testa la cesta grondante dei panni strizzati.

“Com’è andata la scuola?” gli chiese Adele sorridente.

“Bene, bene…ho la pagella…la vuoi vedere?” rispose Enrico, orgoglioso dei bei voti che sanzionavano il suo diritto a vivere, quasi tutto l’anno, lontano dal villaggio.

“Non serve, tanto lo so che sei bravo – disse la ragazza – eri il primo della classe anche quando facevamo la seconda elementare.”

“Andiamo a cercare le lucciole, stasera?” propose Enrico, un po’ mortificato dal rifiuto.

“Che scemo! Le lucciole alla nostra età! – rispose Adele, proseguendo per la sua strada – però domani c’è la Fiera di S. Antonio a C. … ci vieni?”

“Forse” le gridò dietro Enrico.

“Allora ti tengo un posto sul carretto di mio padre” replicò Adele allontanandosi.

Enrico giunse a casa preceduto dall’uggiolare di Argo: aveva annusato a distanza il padroncino, molto prima di vederlo.

La chiave era nella toppa. Enrico entrò e salì le scale. La casa era deserta. Chiamò “Mamma!” un paio di volte, per scrupolo, poi corse nella sua camera, mise gli abiti di tutti i giorni e scese in cucina. Lasciò la pagella aperta, in bella vista, sulla tavola e uscì.

Staccò Argo dalla catena e, insieme, si scapicollarono a gara giù per il sentiero che portava a casa dello zio Maso, il padre di Berto.

Enrico sognava da mesi quel momento. A Pasqua, lui e il cugino Berto si erano azzardati a fare qualche giretto ma senza allontanarsi troppo dal paese perché la neve non era del tutto sciolta, ora invece il sole brillava… avrebbero fatto lunghe spedizioni, da mattina a sera, fino ai pascoli d’alta montagna, girellando tra le malghe in cerca di bossoli, mostrine, elmetti, gavette: immondizie della guerra, passata da quelle parti solo dieci anni prima.   Ma, questa volta, si sarebbero divertiti in modo speciale. A settembre, durante una delle loro ultime incursioni, avevano trovato un piccolo tesoro: un Mannlicher nascosto tra le rocce ai bordi di un ghiacciaio in ritiro. Il fucile di Ceccobeppe, ripulito e oliato da Enrico, bravissimo anche nelle esercitazioni di officina meccanica, funzionava a perfezione.

I due cugini si erano fabbricati un tirassegno, una figura umana ricavata da una vecchia tavola di legno con un vero elmetto austriaco in testa, e avevano saccheggiato la riserva di munizioni che il padre di Berto, cacciatore, nascondeva in cantina; per cavarci la polvere da sparo e fare cartucce.

Altro che la Fiera di Adelina! Enrico aveva in mente solo il Mannlicher e non vedeva l’ora di organizzare un’escursione in montagna con il cugino.

Così, avvicinandosi alla casa dello zio Maso, cominciò a chiamare l’amico per nome, sperando si affacciasse alla finestra.

“Berto! Berto! Sono qui, sono tornato!”

Ferma davanti alla porta della casa la zia Giustina si voltò a guardarlo con una strana espressione.

“Dov’è Berto?” chiese Enrico, ansimante per la corsa.

“Dov’è!? – esclamò la donna, asciugandosi col dorso della mano una lacrima scesa sulla guancia – lassù, ecco dov’è…Berto è lassù, da un mese, non lo sai?” piangeva e, con la mano, indicava il campanile del vicino paese che si intravedeva a mezza costa, oltre le cime degli abeti.

Il gesto della zia lasciò Enrico a bocca aperta. Quelli del villaggio salivano al ‘comune’ solo per la messa della domenica oppure… per andare al cimitero che stava accanto alla chiesa. Chi si trasferiva ‘lassù’non scendeva a fondovalle. Mai più. Scappò via piangendo, inseguito da Argo.

Enrico girò per i sentieri del bosco sopra il paese fino a quando non sentì in lontananza le campane dell’Angelus: quel tintinnare allegro gli parve un lugubre saluto che Berto, sepolto accanto alla chiesa, gli inviava. Così tornò a casa, torvo e arrabbiato contro il mondo.

“Che hai?” gli chiese la madre, intenta a sventolare il fuoco.

“Niente – rispose il figlio – togliendo dal tavolo la pagella. Tanto la madre non l’avrebbe degnata di uno sguardo. Per lei studiare era uno spreco di tempo e denaro, i libri e i giornali erano buoni solo per non bruciarsi quando si toglieva il paiolo dal fuoco.

“Allora perché fai quel muso da mulo?” proseguì la madre.

“Berto è morto” disse Enrico, quasi stupendosi per le parole che pronunciava, come se solo ora quell’evento divenisse reale.

“Lo dicevo io a tuo zio di non sposare quella lì, hanno la malattia in famiglia – replicò la madre – e tu sei stato un matto a farci lega, potevi prenderti il contagio!”

“Ma Berto non stava male…mi hai scritto due volte dopo Pasqua, potevi dirmelo!” esclamò adirato Enrico.

“Non te l’ho scritto? Beh, non mi sarà venuto a mente – disse la madre con tono indifferente, mettendo in tavola, davanti al figlio, un piatto di patate ripassate con la cipolla e la pancetta – mangia e fattela passare! È passata anche a tuo padre.”

Enrico si alzò e, senza dire nulla, scese di corsa le scale.

“Ecco cosa impari a scuola – gridò la madre – a fare secondo Matteo!”

Enrico, quando fu all’aperto, comprese subito perché la madre non l’aveva avvertito. Da quando era rimasta vedova contendeva al cognato certi terreni lasciati dal suocero e imputava il malanimo di Maso alla moglie; per questo non voleva che lui frequentasse Berto, la malattia non c’entrava nulla… Berto stava bene… un fratellino era già morto di tisi, ma durante la guerra, quando gli austriaci si erano presi le patate, la legna e le coperte.

Camminando e pensando Enrico si ritrovò oltre il bosco, sulla via per i pascoli. Senza rendersene conto stava andando verso il fienile abbandonato dove era nascosto il fucile.

Entrò nella stamberga. Prese il Mannlicher e qualche munizione: aveva voglia di sparare ma subito si rese conto che, senza l’amico, non si divertiva a fingersi un soldato di guardia in trincea. Ripose di nuovo il fucile, avvolto in una tela verde, e tornò a casa.

Le sorelle lo festeggiarono e pretesero di vedere la pagella.

“Sempre bravo il nostro fratellino” disse Sofi, orgogliosa.

“Un bel mulo!” commentò acida la madre.

Enrico mangiò in silenzio ma lo schiamazzo delle sorelle coprì il suo malumore.

L’indomani mattina salì al paese. Il cancello del cimitero era, al solito, aperto. Cercò inutilmente la tomba di Berto tra le semplici croci di legno dei bambini, ornate da stinte insegne di dolore, poi pensò che il cugino aveva ormai quindici anni, era il solo figlio rimasto in casa e, di certo, si meritava una tomba da adulto. Raggiunse l’altro capo del camposanto e, finalmente, vide un tumulo con una lapide nuova, fin troppo lussuosa in quel luogo di miseria. Berto era lì, tornato Roberto per essere ‘strappato all’affetto dei genitori da un crudele morbo’.

Enrico pensò di scrivere sulla fredda pietra bianca il suo cordoglio e si frugò in tasca cercando una matita, inutilmente. Dopo tutto Berto era stato strappato anche a lui, alle corse nei parati, al sole dell’estate. E questo, dov’era ora, di certo gli dispiaceva tanto quanto non vedere più la mamma.

Però, adesso, almeno era tranquillo: non avrebbe più litigato con il padre che lo voleva portare in alpeggio, non doveva pulire la stalla, caricare il fieno… forse guardava loro che si affaticavano e piangevano sulla terra con un sorriso di pietà… “ha smesso di soffrire”… non dicevano così le vicine, benedicendo con il ramo d’olivo intinto nell’acqua benedetta il babbo, immobile nel suo letto? Sentiva quasi una strana invidia per l’amico che se n’era andato lasciandoli tutti con un palmo di naso:

“Morire a questo modo è come fare uno sberleffo – pensò Enrico – una mattana, come scendere le scale senza mangiare e mandare tutti al diavolo, per correre fuori e non tornare più, finalmente libero.”

Proprio in quel momento la zia Giustina entrò dal cancello. Tutte le mattine andava a trovare il figlio, con qualche fiore fresco di regalo.

“Mi spiace che tua madre non ti abbia avvertito – disse la zia, salutando Enrico con una carezza sulla testa – però qualcosa immaginavo… mi parve strano non vederti in chiesa al funerale… eravate tanto amici.”

“Come fratelli” disse Enrico, abbassando la testa.

“Eh sì, tua madre è fatta a quel modo… beata lei che ha tanti figli – aggiunse la zia, cambiando l’acqua al vaso dei fiori – i miei sono tutti qui.”

Enrico lasciò il cimitero a passo lento. Non tornò verso casa, prese un sentiero che portava ai pascoli. Camminando cominciò a sentire un gran desiderio di rivedere Berto, di dargli una spinta per gioco, di sfidarlo a fare una corsa. L’assenza non sarebbe durata un mese, un anno… era per sempre. Chi andava in America mandava notizie e, a volte, tornava a salutare amici e parenti. Berto invece era partito e basta, non si sarebbero più incontrati.

Pensò di raggiungerlo: certo l’aldilà non doveva essere un bel posto ma tanto male non sarebbero stati, di nuovo insieme. Quante volte aveva sentito i paesani parlare della vita terribile della trincea, sotto il fuoco nemico, nel fango e nella neve: l’inferno in terra! dicevano, eppure ricordavano ancora con gioia i momenti trascorsi con i commilitoni più cari, a cantare e scherzare. Anche loro due potevano stare così, insieme per sempre, all’inferno, ricordando l’allegria delle trascorse estati.

All’improvviso Enrico si trovò davanti il fienile abbandonato. Guardò la porta e decise: sarebbe andato da Berto, in un solo colpo. Salì la scaletta a pioli per prendere il fucile ma frugò invano nel nascondiglio tra le travi: il Mannlicher era sparito.  Uscì all’aperto, più deluso che stupito.

Qualcuno, dalla collinetta sovrastante, lo chiamò: “Enrico!”

Si voltò e riconobbe subito l’uomo: era Tone, un cugino del padre, il proprietario del fienile e del pascolo  .

“Allora sei tu il cecchino, disgraziato! – esclamò Tone – Vai a casa, vai! e ringrazia Dio che non dico nulla a quella poveretta di tua madre! Ho sentito i colpi, ieri… le armi non sono giocattoli… si rischia la vita! Ma alla tua età cosa vuoi capire della morte!”

Enrico, senza rispondere, prese il sentiero che portava alla sua casa. Per due volte si affacciò a un dirupo che scendeva a strapiombo in valle, sospirando, ma poi riprese il suo viaggio solitario.

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L’immagine è tratta dal sito: http://digilander.libero.it/gipp1/falzarego/tunnel-goiginger.htm

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Rosanna Bogo

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Segnalibri Sant’Agostino

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Il 28 Agosto la Chiesa Cattolica festeggia Sant’Agostino. Un’occasione, per noi, per ricordare il grande lettore (e scrittore!), morto 1583 anni fa.

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