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I segnalibri di Sant'Agostino

Il 28 Agosto la Chiesa Cattolica festeggia Sant'Agostino. Noi abbiamo preparato dei segnalibri, utilizzando l'opera di Simone Martini. Potete scaricarli dall'area di download.

 

Il seme della vita

Un racconto di Luca Berlenghini

“E’ mai possibile – mio angelo custode – che un sentimento solido ed un approdo d’unione tanto sicuro, si dissolva solo a causa del condizionamento sociale, del peso del tempo e dell’avarizia del sentimento?”. Col tardivo senno di poi, io dico che succede ed anche piuttosto spesso. Ed è proprio quello che è capitato a me. L’assoluta illogicità della storia ed i particolari che l’hanno attraversata, rendono ancora più amaro, il ricordo dell’atmosfera incantata dei tempi del mio matrimonio. Assorbiti senza traumi, le scontate difficoltà della prima convivenza, affrontammo con esemplare determinazione la venuta dei due figli ed il conseguente accomodamento di vita e abitudini.

Più tardi, allettato dal successo professionale ma anche per combattere latitanti episodi depressivi, cominciai a destinare sempre più tempo ed energie al lavoro ed alle pubbliche relazioni, diradando la mia presenza in famiglia e trascurando la frequentazione di amici e parenti. Intaccati progressivamente l’afflato e la passionalità coniugali, lasciai sempre maggiori spazi alla passività dell’abbraccio ed alla ripetitività di gesti annoiati, ben lontani dall’appagante sintonia affettiva che ci aveva elargito magiche e travolgenti emozioni. Consentii, così, che nella nostra storia, si intrufolassero pagine non illustrate, segreti oscurati, sguardi non ricambiati. Cominciai a guardare con occhio lussurioso, le curve della bella segretaria, da anni a portata di mano, ma che non mi aveva mai destato voglie particolari, pur permettendosi un abbigliamento disinvolto e persino provocante. Mia moglie, avvertiti i cambiamenti di umore e abitudini, me ne parlò tempestivamente, senza assilli particolari. E fu proprio questa sua straordinaria prudenza a favorire nei primi tempi, dialoghi concilianti ed anche la ripresa di occasionali manifestazioni affettive, da me vissute con ipocrita strumentalizzazione.

Quella mattina, però, fu diverso. Rivolto il solito distaccato saluto “ciao, non mi aspettare, farò tardi”, mi soffermai a guardare mia moglie. L’espressiva fissità dei suoi occhi mi turbò. Un fremito di dolcezza, per un attimo, mi fece accarezzare l’idea di correre ad abbracciarla. Ne fui dissuaso dall’orgoglio e dal gelo indifferente che oramai accompagnava ogni mia azione. Non attesi nemmeno l’arrivo dell’ascensore e scesi di corsa le scale, guadagnando l’uscita. Manifestamente contrariato, mi rifugiai nell’ufficio fino alle ventuno quando mi presentai all’incontro del giovedì con la segretaria amante, serata preannunciata ricca di appetitose novità. Questa furente avventura, aveva contribuito a distrarmi dalle più elementari necessità collaborative che costituiscono il fondamento-salvezza d’ogni rapporto di coppia.

Il massimo dell’indifferenza, lo dimostrai in occasione della grave malattia del secondogenito, lasciando che il terribile fardello cadesse sulle spalle di mia moglie. A riprova della perdita di ogni pudore, mi ero defilato ulteriormente proprio nei momenti bui della sofferenza. Ma quella serata, pur risultando il tutto al di sopra di ogni aspettativa, la vissi senza la consueta partecipazione, annoiato e col desiderio che finisse al più presto. All’alba, rimessomi in macchina e sempre con l’immagine mattutina di mia moglie in mente, avvertii il forte bisogno di svegliarla al rientro e di dirle qualsiasi cosa somigliasse a dichiarazioni di scusa. Mi predisposi così con semplicità, a come mi sarei a lei rivolto. Le avrei solo detto: – “scusami e perdonami, se ancora puoi. M’hai dimostrato che l’amore può avere tanti nomi, ma c’è un solo modo per viverlo: prenderlo per mano, seguirlo con occhi sempre allerti, rianimarlo con l’energia di un sentimento rinnovato”.

Man mano che prendevano corpo questi rasserenanti segnali, mi scoprii gratificato di una carica emotiva che mi spingeva a bruciare gli ultimi chilometri. Contemporaneamente, la stanchezza accumulata in una giornata di lavoro defatigante e l’annebbiamento procurato dall’alcool e dal cibo ingurgitati mi inducevano a ridurre la velocità ed a raddoppiare le precauzioni. Abbordando correttamente l’ultima curva, pregustavo tanto l’imminente incontro con mia moglie che mi esplose dal cuore l’invocazione del suo nome, l’ultima parola da me proferita. Un tracotante fuoristrada lanciato a folle velocità, mi sradicò dalla corsia scagliandomi in alto, per poi infossarmi in un campo circostante.

Quando mi sono trovato tra questi trapassati, ho saputo che alla guida del fuoristrada omicida c’era uno sciagurato godereccio pari mio che aveva fatto della superficialità una virtù, dell’egoismo un titolo di merito, della trasgressione un mito. Appresa la notizia, mia moglie si chiuse ancor più in sé, senza riuscire a versare una sola lacrima, tanto si era consumata per la mia insipienza di uomo da niente. – “Ora và da lei, fedele messaggero, riporta quanto ti ho raccontato e dille che non ho diritto di chiederle niente, nemmeno di implorare il suo perdono. Che sappia almeno che sono morto con l’invocazione del suo nome e con un insanabile rimorso nel cuore”.

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Il portafortuna

Un racconto di Bruno Magnolfi

Non era affatto difficile addormentarsi su una corriera. Era sufficiente avere una giornata di duro lavoro alle spalle, sedersi là sopra e lasciarsi dondolare dagli scossoni che provocava la strada mentre la campagna scorreva, come in un film. Solo che io non avevo una giornata di lavoro alle spalle: ero salito sopra quel mezzo pubblico per andare a trovare un amico, ma senza neppure sapere se quell’amico abitasse ancora in quella casa di paese di cui lui mi aveva dato l’indirizzo quasi un anno prima, durante l’ultima volta che ci eravamo incontrati, e dove io non ero neanche mai stato. Non conoscevo neppure la sua situazione attuale quale fosse: cosa faceva, con chi abitava, perfino se avesse accettato di ricevermi, e soprattutto se fosse d’accordo ad ospitarmi per almeno una notte, ma se era possibile anche di più. Di fatto non sapevo davvero a quale altra porta bussare, e i miei ultimi soldi li avevo ormai spesi per acquistare il biglietto per quella corriera. Non so perché in quel periodo mi fossi ridotto così, con uno zainetto sopra le spalle che conteneva tutto ciò che mi era rimasto, però insieme a me avevo ancora speranza, ottimismo, voglia di pensare al futuro in modo positivo, nonostante qualsiasi batosta.

Mi ero addormentato mentre pensavo al mio amico, a cosa avrei trovato dietro alla sua espressione sorpresa, come mi avrebbe accolto. A volte a qualcuno gira male la vita, non c’era da farne alcuna meraviglia, e aiutarsi l’un l’altro poteva essere bello, forse per ognuno dei due. Accanto a me si era seduto qualcuno durante una fermata della corriera, ma aveva cercato di non disturbare ed io mentalmente mi ero sentito riconoscente verso quella persona. Pensavo ad occhi chiusi alla gente che se ne tornava in famiglia a quell’ora di sera, a parlare delle cose della giornata, a scambiarsi pareri, a confermare gli affetti che li tenevano assieme. Non provavo vergogna, ma io mi sentivo diverso, era proprio così. Chissà cosa mai potrebbe essere stato per me quel futuro di cui adesso discutevano a voce alta qualche sedile più avanti. Era importante avere coscienza della mia situazione difficile: ma d’ora in poi mi sarei rimboccato le maniche, avrei cercato di costruire qualcosa, con calma, certo, con infinita pazienza. Ma avevo bisogno di una spinta iniziale, di quel piccolo aiuto per poter ripartire.

Quando mi volsi verso quella ragazza lei mi sorrise: aveva appoggiato il suo piccolo bagaglio sopra le gambe, e stava lì, ad osservare distratta tutti e nessuno. “Mi scusi”, le dissi, riferito al fatto che avevo occupato ben più del mio spazio sopra al sedile. “Non si preoccupi…”, rispose; “In questa corriera è sempre così…”. Avrà avuto due, tre anni meno di me, ma pure sfiorandosi, pensavo che la distanza tra noi era enorme, incommensurabile. Guardai di nuovo fuori dal finestrino, “C’è ancora molto per arrivare al paese?…”, chiesi. “No”, mi rispose; “Solo dieci minuti”. La corriera andò avanti seguendo il suo percorso di strade, poi la ragazza mi sfiorò il braccio: “Devo scendere…”, disse; “Arrivederci…”. La guardai per un attimo, come si guarda una persona a cui ci sentiamo legati. “Può darmi un bacio, per favore…”, le chiesi; “Ne ho solo bisogno come di un portafortuna…”. Lei mi sorrise, lasciò trascorrere solo un momento trattenendo immutato quel suo sorriso, poi mi baciò, con tenerezza sincera, chiudendo gli occhi, in un gesto di generosità e di affetto che non dimenticai più, per tutta la vita.

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Flashback di Lucien e Lyvia

Un racconto di Giorgio Castellini

castello

Autunno. È una bella giornata, il cielo è limpido, siamo nel tardo pomeriggio. Soffia una leggera brezza, che però data l’ora vi fa rabbrividire. Per terra ci sono un sacco di foglie secche.

Lucien e Lyvia stanno giocando nel parco, all’ombra del grande acero, come sempre prima della cena. Con loro ci sono due dame di compagnia che li tengono d’occhio.

Un urlo di donna viene dall’interno della fortezza, un urlo disperato. Le dame si guardano l’un l’altra, e senza dire niente una delle due si allontana di corsa. L’altra vi rassicura, e vi dice che non è successo niente, non preoccupatevi. C’è un certo scompiglio, non capite bene di cosa si tratta.

Non avete più voglia di giocare, uno strano presentimento vi coglie. Volete tornare dentro, nella vostra stanza, passare un po’ di tempo con vostra madre che vi legge quelle fantastiche storie epiche ed eroiche.

Lyvia non ne è mai stata particolarmente appassionata, tutto quel parlare di eroi violenti e muscolosi che non riuscivano mai ad usare un briciolo di saggezza per uscire dalle brutte situazioni… ma in questo momento le andrebbe bene pure una di quelle storie.

Lucien invece le ha sempre adorate, per quanto non riuscisse a immaginarsi con una lunga spada tra le mani. “Mamma, ma perché non si sono nascosti per evitare quel gruppo di orchi?”, faceva sempre domande simili a questa.

La dama ha un’aria tesa, preoccupata, ma cerca di non darlo a vedere… ed ecco che torna l’altra, ed ha le lacrime agli occhi. Non è sola, è con vostra madre, Alyia. Che bella vostra madre, sempre così elegante, così leggera nei suoi movimenti.

Perché quelle lacrime, madre? Vi preoccupate; raramente l’avete vista piangere, di solito dopo una discussione con papà. È sempre stata una donna tenace, e vi diceva che si deve combattere per difendere le proprie idee e le proprie convinzioni. Chi sa cosa voleva dire.

Si china, e vi guarda con occhi tristi, cingendovi le spalle. Sembra che cerchi di parlare, ma non fa altro che deglutire. Vi abbraccia e vi stringe forte, e sussurra che andrà tutto bene.

La brezza fa sollevare le foglie intorno a voi, mentre le fronde degli alberi si agitano un po’, lasciando altre foglie nelle mani del vento. Anche le foglie si muovono leggere, come vostra madre.

Cos’è che andrà bene?

Passi affrettati, quasi di corsa. Lucien riconosce il fruscio delle vesti, ha sempre avuto un dono nell’identificare i suoni e le voci. Zio Julian è dietro vostra madre… crolla in ginocchio accanto a lei, il rosso del mantello si mescola con il castano chiaro delle foglie. “Alyia…” non dice altro, non potrebbe. La stringe in un abbraccio forte, rassicurante. Lei piange, più forte, come se non ce la facesse più a trattenersi.

Anche papà la abbracciava sempre, però mamma rideva in quei momenti. Aveva occhi così luminosi, quando lui tornava da qualche viaggio.

Julian alza lo sguardo verso di voi; si scosta i capelli castani dalla fronte, castani come la lunga barba. Proprio come papà. Allunga una mano verso Lucien, e gli arruffa i capelli, e lo guarda con dolcezza. Poi sposta lo sguardo su Lyvia, e non c’è traccia del sorriso giocoso che ha sempre avuto.

Perché è così triste, si chiede Lyvia?

Sono passati due giorni, e nel castello regna un’atmosfera stranissima. È come se nessuno avesse voglia di ridere o scherzare. Nessuno vi parla direttamente, ma sembra che ci sia stato un brutto incidente, ed ha qualcosa a che vedere con papà. Mamma dice che non lo vedremo per molto tempo, che sta compiendo un viaggio molto importante. Quello più importante di tutti, alla fine del quale potrà riposarsi per quanto tempo vorrà. Che bello, se papà non dovrà viaggiare più allora starete sempre insieme, a giocare, a ridere ed a raccontarvi storie. Si, dice mamma, sarà così, ma tra molto tempo. È un viaggio molto lungo. È il più importante.

Siamo fieri di lui, non tutti fanno viaggi importanti, alcuni vanno solo al mercato. Nostro padre è importante, lo conoscono tutti e tutti gli vogliono bene.

Oggi c’è stata una cerimonia strana nel parco del castello. C’è una collina, dove papà aveva portato mamma e le aveva chiesto di sposarlo. È in alto, e si vede tutto il parco, ed il castello è magnifico da quel punto.

Ci sono tante persone, molti amici, anche tanti dei bambini con cui giocate ogni tanto, figli di contadini della zona, le loro madri, e tante altre famiglie. Non li conoscete tutti, ma loro sembrano conoscervi. Vi salutano, vi fanno cenni del capo, alcuni vi dicono che ci vuole coraggio, altri invece evitano lo sguardo e si allontanano turbati.

Un sacerdote parla parole vaghe. Dice che papà è in un posto bellissimo, molto luminoso, ed un giorno ci andremo tutti. Peccato, pensa Lucien, a me piace il castello. Ci sono un sacco di posti dove nascondersi; con tutta quella luce invece Lyvia mi troverà subito… beh, di sicuro papà mi aiuterà a nascondermi o a distrarla.

Hanno costruito una cosa strana, tutta in marmo con una sagoma rettangolare.

Sopra c’è il nome di papà, e tutti vogliono toccare questa cosa di pietra. Cos’è una tomba, mamma? È un monumento in suo onore, vero? Lo dicevo io che tutti gli volevano bene a papà, dice Lyvia a Lucien.

E chi è quella dama, con il lungo vestito nero ed i bordi dorati? Vi sembra di averla già vista da qualche parte, ma non riuscite a ricordare dove. Si fa avanti in silenzio… poi guarda verso il basso, come se cercasse le parole. Tutti la guardano, come in attesa, pendendo dalle sue labbra.

E poi canta. Melodiosa, splendida e struggente… Tutta questa tristezza e non so neanche cosa stia dicendo, pensa Lyvia…

Mamma mette una rosa rossa sulla pietra; vi si appoggia per un attimo, e poi è come se non potesse stare in piedi. Una delle dame accorre e la sorregge, e la porta via singhiozzante verso zio Julian.

Rimarrà sempre con noi, dice lo zio.

Certo che rimarrà con noi, smetterà di viaggiare e si riposerà. Appena torna dal viaggio gli dirò che lo zio forse non ne era sicuro, pensa Lyvia.

Julian viene verso di voi. Assomiglia tanto a papà, sembra quasi che sia lui. Quanta tristezza nei suoi occhi. Forse anche a lui manca papà. Si china e prende Lyvia in braccio; la solleva lentamente, e poi la abbraccia, accarezzandole i capelli.

Poi la guarda in viso e le dice che il momento di crescere arriva per tutti, a volte arriva troppo presto. Ma non c’è niente di male, siete forti e ce la farete.

Certo che ce la faremo, ma a fare cosa? E poi siamo già grandi!

Tutto questo parlare per enigmi mi sta annoiando, pensa Lucien. E poi tutta questa tristezza… mi viene quasi da piangere, non so perché. Mamma mi accarezza la testa, e mi viene da abbracciarla e nascondere il viso nella sua veste, nascondere le mie lacrime al resto del mondo, nascondere la mia inspiegabile debolezza.

Ma quando torna papà?

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Una giornata come tante

Un racconto di Fabrizio Carollo

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I passi sono lenti ed incerti.

I jeans strappati e sporchi come pure la maglietta bianca dell’Hard Rock Cafè di Parigi. Un souvenir della gita dell’anno scorso.

Sara ha sempre desiderato averne una, così come ha sempre desiderato poter visitare la capitale francese ed ammirarla dall’alto del suo simbolo più famoso. Una gita andata a buon fine per un clamoroso colpo di fortuna. Un solo voto in più a favore della Francia. Sarebbe bastato molto poco per ripiegare sulla seconda e di certo non meno affascinante destinazione; la caliente Barcellona. Di solito le gite sono sempre le stesse e se non capita una destinazione il primo anno, probabilmente sarà per il secondo o il terzo o comunque prima del diploma. Ma Sara è stata da sempre una adolescente piena di romanticismo e Parigi doveva essere per forza la prima meta, altrimenti avrebbe perso di fascino, almeno secondo la sua opinione. Ed è stato un sogno che si è avverato e che ha alimentato la sua dolcezza. Così come l’ha resa felice quella maglietta, portata in classe con orgoglio ed anche con un pizzico di vanto. Sua madre deve lottare per metterla fra la biancheria da lavare! Fosse stato per lei l’avrebbe indossata anche come un pigiama!! E certamente non si può accusarla di averla maltrattata, anzi… guai se vi fosse stata anche una sola macchiolina.

Ora quella maglietta è irriconoscibile; è completamente fradicia e pare che tutta la polvere della città si sia depositata su essa. Ed anche su di lei.

Passi incerti fatti sul marciapiede del ponte che si domina la linea ferroviaria Bologna–Porretta, nei pressi della stazione di un paese di provincia. Non un paese piccolo certo, dotato dei più svariati servizi e dove si respira già una sorta di aria cittadina, ma pur sempre un paese. Il traffico è ben sostenuto a quest’ora della mattina ma nessuno, nel pieno della sua premura, diretto verso la propria destinazione, presta alcuna attenzione alla teen-ager, se non qualche occhiata distratta. Per molto tempo la ragazzina continua in linea retta verso la sua inesistente meta, oscillando come fosse vittima di una sbornia colossale. Le mani graffiate ed avide di lividi. Le lacrime che ancora solcano le guance rosse e sudate. Il vento freddo invernale che fischia fra i capelli spettinati ed il pallido sole la cui luce tenue ha tuttavia l’effetto di infastidire gli occhi già molto irritati. Le persone che la incrociano si scansano e la fissano con disgusto come fosse una irrecuperabile sbandata o peggio. C’è addirittura chi, vedendola da lontano, preferisce attraversare la strada per non doversi avvicinare troppo. Come un morto vivente, Sara arriva alla fermata della linea 94, che lei prende sempre per tornare a casa. Anche la signora Molelli, pensionata, è in attesa. Vedendo quella figura così indifesa ed inquietante al tempo stesso che le passa davanti senza degnarla di uno sguardo e che vuole continuare il suo percorso, spinta da una misera energia, l’anziana vince l’istintiva ritrosia e si avvicina. È una ragazzina e potrebbe esserle accaduto qualcosa di grave. I suoi vestiti e la sua pelle emanano un forte odore… di carburante.

“Piccola! Piccola,che è successo?? Come hai fatto a ridurti così? hai avuto un incidente? Ehi! Capisci quello che sto dicendo? Hai bisogno di aiuto! Fermati e lascia che chiami qualcuno!”

Afferrata dalla mano della donna, Sara si ferma come un giocattolo che ha esaurito la batteria e volge lentamente il capo verso di lei. Poi lo sfogo che arriva come un fulmine a ciel sereno e l’urlo a squarciagola che precede di un attimo l’abbraccio all’anziana, nel disperato bisogno di protezione!

~

“Cacchio! Siamo solo alla seconda ora! Ho un sonno tremendo! In questi casi è da panico stare al primo banco! Dovrei avere quegli occhiali con gli occhi dipinti!”

“Così impari a stare al telefono fino a mezzanotte con quella pettegola di Laura! Chissà poi che mucchio di stronzate che vi direte! Oltretutto, inutilmente, dal momento che vi vedete anche in classe! Avete delle notizie che non possono aspettare l’alba, vero?”

“Sei curioso, eh?”

“Per niente. Solo preferirei che sprecassi la tua voce per fare quella telefonata al locale! Rischiamo che la saletta sia occupata per sabato!”

“Rilassati, Dario! È il sabato della prossima settimana! È giovedì! Mancano ancora nove giorni! Che palle! Stasera telefono, va bene?”

“Sarà meglio! Dio, ecco che arriva quella stronza di Sara con la sua maglietta da parata! La brucerei!”

“Lei o la maglia?”

“Non saprei da chi iniziare. Spero che quell’arpia non sappia nulla della festa!”

“Tranquillo, non lo sa. Ho detto alle ragazze di tenere la bocca chiusa”

“E sono certo che ti hanno obbedito. Chi non segue alla lettera le istruzioni di Alessandra?”

DRIIIINNN!!!!

“Fine della pacchia! Adesso arriva quello stronzo di Flamigni! Speriamo non gli giri di interrogare!”

“Dipende dal fatto che sua moglie gliel’abbia data o no ieri sera!”

“Allora non c’è speranza!”

“Vatti a sedere, scemo!”

Non appena il temibile prof. appare sulla soglia, tutta la seconda A si fionda ai propri posti. Fortunatamente, la signora Flamigni doveva essere ben disposta ieri sera; oggi, il professore barbuto di mezza età è piacevolmente tranquillo. Di certo le sue spiegazioni hanno un pesante effetto anestetico ma sono sempre meglio delle interrogazioni a sorpresa, così durante il suo monologo, i ragazzi possono dedicarsi senza troppa paura ai loro importantissimi affari privati. Dal canto suo, Dario può rivedere gli invitati alla festa che sta organizzando da tempo. La festa di compleanno di Deborah (con l’acca, ovviamente!),che lui non ha mai conosciuto più di tanto. Il fatto importante è che è la migliore amica di Deborah è Tiziana… e Tiziana è l’angelo della terza fila. Il suo primo amore mai confessato. Un viso in cui lui si è perso volentieri più di una volta ed una voce così dolce e, perché no,sensuale da far girare la testa. Un rapporto sfuggevole, fatto di merende offerte al bar della scuola o di compiti di mate passati sottobanco. Mai il coraggio di telefonarle o di mandarle il fatidico bigliettino strappato dal quadernone, dove è scritto, a caratteri cubitali e, possibilmente in rosso:

“Mi piaci tanto e vorrei essere qualcosa di più di un amico per te!!!!”

I quattro punti esclamativi sono importantissimi per una dichiarazione d’amore a dovere! Da ricordare assolutamente.

Un amore di nicchia,ma il party può essere la svolta per uscire allo scoperto e cambiare tutto al meglio. Una festa che può essere la porta d’ingresso alla realizzazione del suo sogno. E Dario è fiducioso per questo: prima della fine dell’anno sarà insieme a Tiziana ed il loro amore sarà eterno, logicamente.

Ma c’è anche chi ha problemi più immediati, come nel caso di Elena, che deve rimediare il quattro in storia affibbiatole la settimana scorsa, tenuto ancora ben nascosto ai suoi. Si deve fare interrogare alla terza ora e deve prendere almeno un sette, per smussare gli angoli al ricevimento dei professori per la chiusura del primo quadrimestre. Certo, Flamigni non sarebbe molto contento che la storia batta le leggi della fisica che lui spiega con vivo entusiasmo, ma, si sa, la vita è una questione di priorità.

In fondo, vicino agli attaccapanni, c’è Federico che segue scrupolosamente la lezione prendendo più appunti di quanto serva e stando bene attento alla punteggiatura, da bravo secchione, come vuole la sua fama. Dopotutto, non è cosa da poco avere la responsabilità di passare i risultati dei compiti in classe di quasi tutte le materie a più di metà classe, attraverso un collaudato sistema di passaggio bigliettini. Già una borsa di studio a disposizione per meriti scolastici e le idee ben chiare sulla strada da percorrere per creare il proprio futuro. Un ragazzo con la testa sulle spalle davvero, denigrato da molti per le sue qualità ma sfruttato da tutti proprio per le sue qualità. Con una punta di snobismo, se vogliamo, ma consona alla reputazione che porta sulle sue spalle, volente o nolente.

Chi si fa meno problemi o per meglio dire non se ne fa affatto è nell’ultimo banco vicino all’ultima finestra; una posizione strategica ricercata con molta cura, al riparo dai professori che guardano negli occhi le persone prima di decidere chi interrogare, anche se nascondersi non funziona poi sempre. Ma considerato il fatto che Flamigni ha due veri e propri fondi di bottiglia che vengono chiamati eufemisticamente “occhiali”, Eugenio, detto “Gegio”, non ha alcun problema a riposare gli occhi con la testa poggiata sul libro. Un sognatore nel vero senso della parola, in quello più stretto. Il classico ragazzo che aspetta la campanella dell’ultima ora e che se ne va a scuola perché bisogna andarci e perché è un modo come un altro per passare il tempo. Ragazzi come tanti, che dimenticheranno i loro problemi esistenziali e seguiranno il giusto entusiasmo della loro età ad una festa ormai vicina. Una scuola come tante altre, in un paese che odora già di città, di nome Casalecchio di Reno. Un giorno come tanti, con le decorazioni che appaiono lungo le strade e che preannunciano il clima festivo alle porte. Un giorno come tanti finché Gegio non sente quel rumore fastidioso che disturba il suo riposo. Un rumore via via più intenso e di sicuro non comune. Il fastidioso rumore dei vetri delle finestre che vibrano ed un’ombra che diventa più grande ogni secondo.

E non è più una giornata come tante per la classe seconda A. Purtroppo, sarà ricordata per molto tempo.

ISTITUTO TECNICO SALVEMINI

6 DICEMBRE 1990

 


Dedico questo racconto alla memoria di tutte le vittime ed i familiari rimasti coinvolti nella tragedia dell’istituto Salvemini di Casalecchio di Reno (BO). La mattina del 6 Dicembre un aviogetto di addestramento si schiantò contro la scuola Salvemini, uccidendo dodici studenti delle 2° e ferendo gravemente altre 5 persone, incluso l’insegnante. Il carburante fuoriuscito dal velivolo prese fuoco ed un tremendo incendio divampò nell’edificio, portando al ferimento di altre 72 persone presenti nella scuola.
Il 26 Gennaio 1998, nonostante i ripetuti ricorsi presentati dai familiari delle vittime, la Corte di Cassazione di Roma assolse tutti gli imputati militari coinvolti nell’incidente, sostenendo che “il fatto non costituiva reato”.
I nomi presenti nel racconto sono fittizi, ma è autentico il rispetto e la sincera commozione per quelle vite spezzate in modo così assurdo. A tutt’oggi, la mia partecipazione all’immenso dolore è sempre viva.

Fabrizio Carollo.

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Il bibliotecario

Racconto eliminato su richiesta dell’autore

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Lo spacciatore d’occhi

Un racconto di Giulia Riccò

spacciatore d'occhi
Il vicolo era mal illuminato e puzzava come una latrina.
Mi metteva a disagio. Quando entrai nel piccolo negozio mi sentii anche peggio.
Come c’ero finito in quella situazione?
Ah già. Era stata Nike.
Nike, lei era una di quelle che ti convincono, che quando le incontri non le puoi dimenticare.
La vidi la prima volta al pub del guercio qualche mese prima. Si sedette accanto a me come farebbe una vecchia amica e, dopo essersi presentata, cominciò a parlare liberamente.
Mi sentivo bene con lei accanto, anche se pensai che fosse un po’ strana. Non ci provai nemmeno, la confidenza che mi dava era quella che si danno due amici e non lasciava trapelare altro.

Non so come ma, alla terza pinta di birra, finimmo col parlare della visione che ognuno di noi aveva della vita.
Gli esposi le mie opinioni e lei mi ascoltò in silenzio. Aveva uno strano scintillio negli occhi e fu lì che mi accorsi che aveva un occhio viola e uno nero.

«Dovresti andare nel negozio del signor Foster» mi disse quando terminai. “Lui ti regalerebbe una visione del mondo più… sferica! Sei troppo estremista nelle tue idee, rammenta che ci sono diversi modi di vivere la vita. Per viverla intensamente intendo”.
Risi. “Cosa venderà mai questo magnifico Signor Foster per fare una meraviglia del genere” la schernii.
Lei rimase seria. Solo un piccolo e ambiguo sorriso sulle labbra. “Non posso svelartelo se ti va vacci, sta nel vicolo dei ciechi. Digli che ti mando io lui farà il resto.”
Prese un sottobicchiere e scrisse, con bella calligrafia, l’indirizzo, la parola sfera e con affetto Nike.
“Dagli questo, lui farà il resto.” disse infilandomi il sottobicchiere in tasca.

Non incontrai più Nike e non pensai più a questa storia. Almeno fino a questa mattina, quando ritrovai quel sottobicchiere. Lo rigirai a lungo tra le mani prima di decidermi. Mi vestii, lo infilai nella tasca della giacca e mi avviai a lavoro. Ci sarei andato una volta finito il servizio fotografico per il giornale, pensai.
E così, a sera andai in quel vicolo puzzolente, dentro quel negozio di chincaglieria grande quanto uno sgabuzzino.
“Buona sera posso aiutarla?” chiese una vocina dietro al bancone. Ebbi una sgradevole sensazione quando incrociai lo sguardo dell’ometto che aveva parlato. Aveva una faccia da topo e le mani ossute che sfregava con vigore. Gli occhi poi erano qualcosa di inquietante e ipnotico. Due pozzi neri senza fondo. Si poteva perdere il senno a guardarli troppo a lungo.
“Ecco… io…” Balbettai agitato. “Veramente io non saprei. Nike mi ha dato questo e mi ha detto di dirle che mi manda lei.” Misi il sottobicchiere sul bancone per evitare un qualsiasi contatto fisico con quell’uomo.
Il sorriso che apparve sul volto del signor Foster era qualcosa di spaventoso, era come se il suo volto fosse stato tagliato da un coltello affilato.
“Molto beeeene!” disse con una cadenza fastidiosa. “Mi segua caro signor ?”
“Sullivan” Dissi mentre lo seguivo.
Non ricordo molto bene quello che accadde dopo. So solo che quando mi svegliai la testa mi pulsava fastidiosamente e Nike era al mio fianco.
“Ben svegliato” mi disse sorridendo. La trovai differente dall’ultima volta. Non so cosa fosse ma mi sembrava di vederla sotto una luce differente. Ebbi una fitta di dolore alla parte sinistra della testa.
“Cosa… cosa mi ha fatto?” Domandai guardandomi intorno. Ero sdraiato in una stanza completamente bianca, c’era odore di disinfettante e di incenso.
“Una piccola meraviglia” Disse dolcemente Nike. Si alzò e andò a versare in una tazza del liquido caldo. “Bevi, ti farà passare il dolore.” Disse porgendomi poi la tazza.
Passò un po di tempo e il dolore passò. Rimasi nella stanza ancora due giorni poi finalmente riuscii ad alzarmi.
Nike ogni tanto veniva a trovarmi per il resto del tempo restavo da solo.
Quando uscii mi accorsi che qualcosa era cambiato. Non riuscivo a definire cosa ma più mi guardavo attorno più mi accorgevo che sentivo le cose diversamente. Più che altro vedevo le cose diverse. Il negozio, che prima mi sembrava angusto e inquietante, ora lo vedevo come un piccolo gioiello di curiosità, lo stesso Signor Foster, che non avevo più visto da quella sera, mi sembrò meno inquietante, addirittura gentile. Passando davanti a uno specchio notai qualcosa. I miei occhi erano diversi. Il destro era come sempre ma il sinistro aveva un altro colore. Avevo un occhio grigio e uno nero. Guardai prima Nike e poi il signor Foster perplesso.
“Ma… ma cosa avete fatto?! Perché i miei occhi sono così?” Domandai leggermente spaventato.

“Non è nulla ragazzo mio” disse il signor Foster con tono pacato. “E’ solo una magia per farti vedere il mondo in più maniere. Diciamo che è la piccola magia dello spacciatore di occhi.”
Da allora non vidi mai più né Nike né il Signor Foster.
In compenso vidi molte più cose a cui un tempo sarei stato cieco.

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Il colore dell’anima

Un racconto di GM Willo (www.willoworld.net)

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Mi chiamo Valerio Parisi, ho cinquantotto anni e da tredici mesi combatto una malattia terminale che a breve mi porterà nella tomba. Ne hanno provate di tutte, ma il cancro l’ha avuta vinta, al solito. Ho visto morire prima mia madre e poi mia sorella; stessa storia, stesse procedure. Chemio, sofferenze, false speranze, miglioramenti e poi la sentenza. Intendiamoci, non mi aspettavo di guarire. Quando mi hanno diagnosticato il tumore maligno sapevo come sarebbe andata a finire, e mi va bene così. Nessuno piangerà la mia dipartita. Mia madre e mia sorella mi hanno preceduto, mentre mio padre non l’ho neanche conosciuto, e quindi sono più che sicuro che morirò da solo, in pace, insieme ai miei fantasmi.

Ma di uno di questi fantasmi, il più terribile e vergognoso, vorrei lasciare testimonianza in queste pagine. Quando qualcuno verrà a ripulire il mio appartamento forse si metterà a leggere questo quaderno e scoprirà un assassino. Per allora mi troverò beatamente sotto terra, a dare da mangiare ai vermi.

Questa non è una semplice confessione. Questo non è un atto di redenzione. Per quanto colpevole di un orribile omicidio, non cerco né scusanti né perdoni. Questo è semplicemente un omaggio alla verità, quell’inafferrabile chimera che gli uomini hanno da sempre la presunzione di rincorrere, ma che solo raramente, o forse mai, sono in grado di afferrare pienamente.

Il 18 settembre 1983 invitai a cena una mia collega di lavoro, tale Francesca De Luca, ventisette anni laureata in giurisprudenza, impiegata presso la medesima compagnia d’assicurazioni per la quale ricoprivo l’incarico di consulente. Non ho mai avuto successo con le donne e a trentadue anni contavo solamente un paio di brevi relazioni deragliate nella noia. Ma Francesca era una tipa in gamba, me ne accorsi subito, come mi accorsi che era di un livello troppo al di sopra di me. Sapete cosa intendo, vero? Prima dell’attrazione esiste un altro importante fattore che permette a due persone di convergere in una relazione, ed ha a che fare con l’anima. Sì, l’anima. Io credo fermamente nell’anima. Quella di Francesca era fulgida e grande, mentre la mia… beh, se continuerete a leggere queste pagine, ve ne renderete conto voi stessi di che pasta è fatta la mia anima.

L’anima è qualcosa di più complesso di un codice genetico o di un profilo caratteriale. Se nasci con l’anima sbagliata, non puoi fare altro che accettarla, e cercare di fare meno danni possibile. Quella sera presi pienamente coscienza della natura della mia anima, e da allora ho sistematicamente evitato di avvicinarmi alle persone, per paura di fare loro del male.

Invitai Francesca a cena a casa mia, un incontro di cortesia e di lavoro. Ero sicuro che avrebbe rifiutato ed invece accettò e si presentò alle otto in punto con una bottiglia di vino e la bozza di una presentazione che stava preparando per la compagnia. Voleva avere la mia opinione ed io ero felicissimo di poterla aiutare.

Preparai la bistecca, l’insalata, bevemmo il vino e poi sparecchiammo insieme e incominciammo a parlare di lavoro. Mi mostrò il fascicolo che aveva con se, lessi, commentai, feci due battute, lei rise, versai altri due bicchieri di rosso e bevemmo di nuovo. La serata procedeva alla grande. Poi successe qualcosa di sbagliato.

Prima di quella sera non avevo mai preso l’iniziativa con una donna. Non sono mai riuscito a percepire i segni e i tempi giusti. Le donne che avevo avuto fino a quel giorno avevano sempre fatto il primo passo, ma quella volta provai ad andare contro la mia natura passiva ed insicura. Le afferrai la mano, la guardai e provai a baciarla.

Gli eventi che seguirono rimangono confusi nella mia mente, nonostante abbia provato per molti anni a riesumarli nei minimi dettagli. Ricordo che lei evitò il mio bacio e ritirò la mano, ricordo che si alzò dal tavolo e disse qualcosa, ma non ricordo assolutamente cosa. Ricordo che incominciò a raccogliere le sue cose per andarsene, ma non ho idea di come la raggiunsi alla porta di casa, per afferrarle i capelli e sbatacchiarle la testa contro il tavolino di marmo dell’ottocento che avevo nell’ingresso.

Ricordo le mie mani che le stringevano la gola, ricordo lei agonizzante sulla moquette grigia, ricordo il suo sguardo supplichevole poco prima di esalare l’ultimo respiro, ma non ricordo affatto la ragione per la quale mi era improvvisamente scattata quella furia omicida.

Rimasi seduto accanto al corpo di Francesca per più di un’ora, a contemplare l’abatjour riversa sul pavimento, con la lampadina che nella caduta doveva essersi svitata e perciò lampeggiava convulsamente. La contemplazione mi aiutò a decifrare il colore della mia anima, ma non a farmene una ragione. La mia anima è nera, obliante, succhiatrice di luce, un assurdo vortice del nulla. Dopotutto mi ritengo un uomo fortunato, o forse i fortunati siete voi. Se avessi ascoltato la mia anima più spesso avrei continuato a mietere vittime, invece ho preso coscienza della mia natura e mi sono fermato lì, nell’ingresso del mio vecchio appartamento, accanto al corpo senza vita di una giovane avvocatessa.

Quello che è successo dopo potreste trovarlo rivoltante. Se così fosse vi assicuro che il problema è solo vostro. Se siete della anime chiare oppure grigie, potreste pensare di me come ad un folle. Se siete delle anime candide penserete che sia l’incarnazione del male. In realtà questo è solo un gioco di percezioni. La verità va oltre la rappresentazione di noi stessi in questa farsa che chiamiamo vita. Ma non complichiamo troppo la storia e cerchiamo di tornare al punto.

Francesca era morta e niente l’avrebbe fatta ritornare in vita. Capii che il bisogno di esorcizzare quell’evento e di fare i conti con il colore della mia anima era l’unica priorità plausibile di quella storia di morte. Compresi che se avessi cercato di accettare la mia natura con troppa leggerezza avrei rischiato di rimanerne sopraffatto, per questo nascosi immediatamente il corpo. L’anno prima un amico mi aveva chiesto se avevo posto per un congelatore a pozzo, di quelli che i bar usano per i gelati. Si era separato dalla moglie ed era tornato a vivere con sua madre, ma era in attesa di comprare casa e andare a vivere da solo. Chissà per quale motivo aveva fatto dodici rate per quel congelatore, che poi aveva piazzato nel mio appartamento. Non è mai tornato a riprenderselo, perché sei mesi dopo tornò a vivere con sua moglie e non c’era spazio per quell’affare che alla fine rimase a me. A quei tempi i cibi congelati non avevano ancora un grande mercato, ma io, vivendo da solo, lo trovai molto utile. Congelavo praticamente tutto; carne, pesce, pane, verdure, pasta fresca. Ciononostante il frigo era sempre mezzo vuoto.

Quella sera lo svuotai completamente e ci infilai il corpo di Francesa. Mi  preoccupai di toglierle i vestiti prima di metterla dentro, per una semplice questione di igiene. Poi ricoprii il suo corpo con sacchettini di piselli, broccoletti, bistecchine di maiale, ossi buchi, orate, ravioli di patate e filoncini da mezzo chilo. Non riuscì a ricoprirla completamente. Rimanevano fuori un piedino con le unghie smaltate, un gomito e una ciocca di capelli. Pazienza, pensai, e chiusi il congelatore.

Ci furono le indagini della polizia sulla sua scomparsa, articoli in terza pagina sui quotidiani più importanti e ne parlò anche il telegiornale. Mi aspettavo che la polizia irrompesse nel mio appartamento da un momento all’altro. So che vi parrà strano ma la cosa non mi preoccupava minimamente. Se avessero bussato alla porta li avrei condotti immediatamente al congelatore a pozzo. L’idea di farmi l’ergastolo o di passare per un pazzo non mi turbava. Avevo altro a cui pensare. Dovevo fare i conti con il colore della mia anima.

Ancora mi chiedo perché nessuno venne a chiedermi niente. Quella sera Francesca venne in taxi, quindi la polizia avrebbe potuto risalire a me solo attraverso il tassista, che sicuramente non aveva prestato attenzione a una delle sue tante clienti. Ancora più strano mi sembrò il fatto che non avesse parlato con nessuno del nostro incontro. Insomma, anche se avessi voluto cancellare gli indizi su di me, non ce ne sarebbe stato bisogno, per il semplice fatto che non c’era alcun indizio su di me.

Dopo tre mesi nessuno parlò più di Francesca De Luca, neanche a lavoro, eppure lei era sempre con me, sotto i pisellini primavera e gli ossi buchi.

A quel tempo abitavo a poco più di dieci minuti di cammino dal mio ufficio, una passeggiata molto piacevole interrotta da un cappuccino e un cornetto al bar Jolly che si trovava a metà strada. Prima del bar passavo  un ponticino che dava sopra un canale di scolo, buio e melmoso. Fu in quel canale che nell’arco di tre mesi e mezzo mi liberai del corpo di Francesca, un pezzettino alla volta, così come un poco alla volta accettai la mia natura deviata.

Mi alzavo la mattina, facevo la doccia, prendevo il caffè, e prima di vestirmi andavo a prendere, dalla cassetta degli utensili, il flessibile che mi ero comprato per l’occasione. Indossavo una mascherina e un grembiule bianco impermeabile e aprivo il congelatore. Dopo avere estratto i cibi in superficie, azionavo la lama rotante e amputavo un pezzettino del suo corpo. Incominciai con la mano destra, all’altezza del polso. Il flessibile riscaldandosi scongelava velocemente la carne e qualche gocciolina di sangue schizzava sulle pareti del congelatore oppure sui miei occhiali di protezione, ma niente che non si potesse levare con un colpo di spugna. Il pezzo lo infilavo in un sacchetto di plastica per alimenti surgelati (all’epoca era davvero difficile trovarli per uso privato) e poi rimettevo tutto a posto, ragazza e broccoletti.

Per quasi quattro mesi, come vi dicevo, me ne andai a lavoro con un sacchettino di plastica ed un pezzo di Francesca nella borsa dei documenti della compagnia. Mi fermavo sopra il ponte e con noncuranza, senza neanche preoccuparmi che qualcuno potesse trovare curioso quel mio comportamento, svuotavo il sacchetto nel canale di scolo. Ogni volta che eseguivo questo rituale mattutino, apparentemente efferato e folle, sentivo una strana quiete depositarsi sul mio cuore, come una cicatrice che si rimargina pian piano. Immaginavo che stessi lentamente chiudendo la porta segreta che avevo spalancato dentro di me, quella sera funesta in cui mi avventai su Francesca. Volevo chiudere a mandata quella stanza e gettare via la chiave, segregando la mia nera anima una volta per tutte.

E così riuscii a fare. Insieme all’ultimo pezzo di lei, il suo piedino sinistro, in una bella mattinata di marzo, tornai ad essere quello che ero prima dell’omicidio, tuttavia cosciente delle mie crudeli potenzialità.

Questa è la verità. Adesso la conoscete, e per quanto terribile dovrete anche voi fare i conti con lei, come li feci io sopra il canale di scolo. Non ho rimorsi. Non ho rimpianti, e credo che se esiste davvero un dio, dimostrerà la sua comprensione nei miei confronti. Se davvero è stato lui a soffiare l’alito di vita nella mia anima, deve averci avuto i suoi motivi.

Ed io non mancherò di chiedergli spiegazioni, molto presto, appena ne avrò l’occasione.

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Segnalibri Sant’Agostino

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Il 28 Agosto la Chiesa Cattolica festeggia Sant’Agostino. Un’occasione, per noi, per ricordare il grande lettore (e scrittore!), morto 1583 anni fa.

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