“No, così proprio non va – disse il Questore Torrisi, scuotendo la testa con aria falsamente dispiaciuta – è un vero disastro!”

“Ma io ho studiato, professore – esclamò Sapìa allungando una mano per afferrare il foglio protocollo che Torrisi gli agitava sotto il naso con aria di rimprovero – glielo giuro!”

“Le solite scuse…ma non si vergogna, alla sua età?” disse ironico Torrisi. La stanza si riempì di risatine soffocate. Sapìa si voltò per cogliere in fallo i compagni spiritosi ma l’aula era vuota: un desolato parterre di banchi e sedie tra quattro mura spoglie.

Com’era finito in quella situazione? Sapeva di essere preparato… andava sempre preparato agli esami. Magari aveva commesso qualche errore ma nulla di veramente grave. Proprio perché non si sentiva un genio s’impegnava sempre al massimo.

“Ci deve essere uno sbaglio – disse con voce ferma e risentita – forse quello non è il mio compito… controlli il nome.”

“Vuole insegnarmi il mestiere? Tutti così, vi arrampicate sugli specchi pur di portare a casa la sufficienza! Guardi qui… Italo Sapìa 5° B… per caso non è la sua scrittura? e questa è la prima pagina… vede, non ha tradotto neanche una parola!” esclamò trionfante Torrisi, girando di nuovo il foglio. Aveva in mano un compasso e, infilata la punta proprio al cento della ‘o’ di Italo, disegnò un cerchio enorme che conteneva nome e cognome.

“Ecco quello che si merita per questa versione – aggiunse Torrisi, osservando compiaciuto la sua opera – uno zero, tondo tondo!”

Sapìa fissò incredulo il protocollo: non aveva mai consegnato un compito in bianco, mai in tutta la vita. Torrisi però aveva ragione, quella era senza dubbio la sua firma e la rigatura della colonna di destra appariva desolatamente vuota; la colonna di sinistra era invece fitta di segni incomprensibili… greco! All’improvviso si sentì salvo:

“Ma è una versione dal greco – disse, riprendendo coraggio – sfido che non l’ho fatta! e chi lo conosce il greco!”

“Allora ammette di non essere preparato! Bravo, almeno si dimostra sincero… certo ravvedersi il giorno degli esami finali serve a poco ma per incoraggiamento le darò un più – replicò imperturbabile Torrisi – ecco, il suo voto adesso è zero più. Contento?”

“Contento un accidenti – gridò Sapìa imbestialito – allo Scientifico non studiamo il greco! M’interroghi in fisica, in matematica, mi faccia fare una versione dal latino e vediamo se mi merito zero più! questa è un’ingiustizia intollerabile!”

“Il voto lo decido io – urlò Torrisi, battendo il pugno sulla cattedra – sono io il professore! mia è la giustizia! adesso esca, torni a settembre…e la smetta di fare la vittima, tanto con me non attacca.”

Sapìa avrebbe voluto ribellarsi a quell’incredibile prevaricazione, strappare a brandelli il maledetto compito, insultare Torrisi, minacciare le vie legali ma non aveva un filo di fiato in gola e le braccia, diritte lungo i fianchi, rifiutavano di muoversi. Si voltò di scatto: qualcuno lo aveva afferrato per una spalla. Era il bidello Sandrone, un brav’uomo un po’ corto di cervello che gli altri ragazzi prendevano sempre in giro. Lui no, non si era mai divertito alle spalle di quel poveretto che però ora lo guardava con aria feroce, evidentemente deciso a far rispettare l’ordine di Torrisi.

“Hai sentito cosa ha detto il signor professore? – esclamò Sandrone minaccioso – devi andartene, Italo… raus! fuori ti aspettano da un pezzo.”

“Vado, vado da solo, non occorre spingere” disse Sapìa divincolandosi dalla presa del bidello. Uscì senza salutare. Il corridoio era vuoto e lunghissimo. Di certo non si trovava nel suo vecchio e modesto Liceo di provincia: si affacciò a un balcone e riconobbe subito la scalinata. “Che cavolo ci faccio al Viminale!? – pensò, imboccando una stretta scala – speriamo di trovare un treno per tornare a casa prima di notte!”

Quasi di corsa scese una, due, tre, quattro rampe ripide: non vedeva l’ora di arrivare alla stazione ma i gradini sembravano non finire mai. Si ritrovò in un grande stanzone semibuio, senza finestre. L’aria era umida, muffosa, irrespirabile

“Ma bene, sono in cantina!” pensò, alzando gli occhi per valutare quante rampe avrebbe dovuto risalire. La luce nella tromba delle scale lo abbagliò.

“Alla buon’ora, Italo! – esclamò una voce alle sue spalle – dov’eri finito?”

Sapìa sussultò, voltandosi di scatto. Per le sue pupille offuscate tutto era nero nella penombra del sotterraneo ma non aveva paura perché sapeva già chi sarebbe emerso dall’oscurità: aveva riconosciuto la voce di suo padre.

“Ti aspettavamo” aggiunse un’amata voce femminile.

“Già, Sandrone mi aveva avvertito che eravate qui” mormorò Sapìa, quasi contento di ritrovarsi in famiglia.

“C’è anche Franceschino – proseguì la mamma – te lo ricordi il nostro Cecco?”

Che domanda… come poteva dimenticare il cugino che si era schiantato con la macchina una lontana sera d’estate: sono cose che a vent’anni non si accettano facilmente. “Povero Francesco…” pensò Sapìa con la paterna compassione dell’uomo adulto.

Ora che l’occhio si era finalmente abituato alla scarsa luce del sotterraneo poteva riconoscere i parenti che lo circondavano: i genitori, i nonni, la zia Teresa, lo zio Carlo in carrozzina, Francesco. Sapeva che l’ombra più piccola, in un angolo, era Marcellina, una sorella del padre stroncata bambina dalla polio. Di certo vestita come nella foto che la nonna teneva sul comodino e baciava tutte le sere.

“Orlando dov’è” chiese Sapìa, notando l’assenza del fratello.

“Quel disgraziato…dove vuoi che sia! a far danno da qualche parte” borbottò il padre.

“Orlando non può stare con noi, lo sai!” disse la mamma dolcemente stupita.

Sapìa avrebbe voluto gridare che neanche lui poteva stare con loro ma non aveva voce… afferrò il corrimano della scala: voleva fuggire dal sotterraneo, tornare alla luce e all’aria ma i piedi, pesanti come piombo, rimanevano incollati al pavimento. A forza di braccia, trascinandosi come un paralitico, cominciò a risalire i gradini ma una mano lo tratteneva per una spalla. Doveva liberarsi dalla presa, era questione di vita o di morte: il drappello dei familiari defunti si scomodava solo per annunciare al congiunto un trasloco definitivo.

“Sandrone…lasciami andare” mormorò disperato.

“Ma che Sandrone e Sandrone, sono io – esclamò la moglie, schiaffeggiandolo con delicatezza – svegliati, Italo!”

Sapìa aprì di scatto gli occhi. La luce sul comodino era accesa, tuttavia impiegò qualche secondo per riconoscere i mobili della sua camera e rendersi conto di essere dove doveva essere: a casa, a letto. Nel frattempo la moglie, abbandonate le maniere dolci, era passata alla manovra preliminare della rianimazione: aggredire lo sternocleidomastoideo del paziente in stato d’incoscienza.

“E piantala, Edda! non lo vedi che sono sveglio?”

“Mi hai fatto prendere un bello spavento… non respiravi più: ancora un po’ e chiamavo il 118!”

“Perché dormivo senza russare? Sai che risate.”

“Fai pure lo spiritoso ma una volta o l’altra l’apnea ti manda all’altro mondo!”

“Certo, se non suono il contrabbasso tutta la notte vuol dire che sono defunto.”

“Bella riconoscenza, io non chiudo occhio per la preoccupazione e tu invece protesti perché non puoi dormire.”

“Ma insomma: sono morto o sono nel mondo dei sogni?” chiese ironico Sapìa.

“La prossima volta ti lascio soffocare – replicò la moglie offesa, girandosi dall’altra parte. Tirò il lenzuolo sopra la testa per mostrare tutto il suo sdegno – e se ti viene un infarto non mi chiamare.”

La signora Sapìa seguiva con attenzione le trasmissioni televisive d’argomento medico e non sottovalutava i danni prodotti dall’apnea nei grandi russatori: come tutte le madri di famiglia, aveva in testa una folla di pensieri che faceva girare tutta la notte le pale eoliche del cervello, producendo corrente anche quando l’interruttore principale era spento, così, se nel cuore della notte il motore rinofaringeo del coniuge si spengeva, quell’improvviso silenzio apportatore di sciagure bastava a svegliarla dal sonno più profondo.

Allora, senza fare rumore, accendeva l’abat-jour e scrutava a lungo l’uomo che da venticinque anni dormiva sdraiato al suo fianco, cercando di cogliere qualche rassicurante movimento della cassa toracica. Se l’angosciosa incertezza si prolungava oltre i dieci minuti ricorreva alla risolutiva scrollata di spalla: un cervello non irrorato per tanto tempo rischia il default!

Si trattava tuttavia di un’ultima ratio riservata a casi eccezionali, perché la ‘verifica’ mandava il marito fuori dai gangheri. Sapìa trovava quella pratica, oltre che stupida, di cattivo augurio: quando la signora Edda, tirando un respiro di sollievo, esclamava “Ah! Sei vivo!” lui replicava con voce gelida “No.”

Questa volta però Sapìa era contento che la moglie, con le sue fastidiose manovre, l’avesse svegliato. Non credeva alle superstizioni ma riteneva che il corpo, come certi elettrodomestici ultramoderni, fosse in grado di inviare messaggi di avaria che il cervello trasformava in immagini oniriche particolari…per esempio una comitiva di familiari defunti.

Guardò la sveglia: erano le cinque, ormai tanto valeva alzarsi.

Continua…

 

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Rosanna Bogo