Un racconto di Idelfonso Nieri da: “Cento racconti popolari lucchesi“.

Da questo racconto  l’ispirazione per “La Clausola

 C’era una volta un uomo il più disgraziato che si potesse dare nel mondo. Aveva tentato tutte le vie per uscire dalla miseria, aveva fatto della sua vita torchio per montare uno scalino; ma quanto più s’ ingegnava e più sprofondava nella bigongia: se si metteva a fare una Madonna, gli riusciva un soldato! Avrebbe dato l’animaccia al diavolo per due soldi. Una volta che era più scannato del solito e non sapeva come riprillarsi dai debiti, girava da una stanza all’altra che pareva una tigre nella gabbia e sagrava come un dannato dalla gran rapina che lo divorava dentro vivo; quando tutt’a un tratto gli apparse il diavolo. — «C’è da piangere? ‘un son qua io?! Mira, eccoti qui cinquecento scudi un sopra l’altro belli pari; io te gl’impresto senz’un centesimo d’interesse, purché fra un anno in punto in questo giorno e a quest’ora precisa tu me li renda! 499 più uno». — «E se non te li rendo?» — «Se tu non gli hai da rendermeli, fratello, mi devi accontrattare l’anima; l’anima tua è mia, e io la potrò pigliare tutte le volte e quando mi parerà e piacerà». — «O cosino! ma l’anima non è mica ròccia!» — «O cosóne! ma neanche cinquecento scudi li trovi nella spazzatura! E oh! eccoli qui spulati, ballanti e sonanti, nuovi di zecca». — «Basta, dice lui, sentiremo un po’ la moglie come la pensa!» Ma aveva già l’acquina in bocca. Vanno di là e raccontano il negozio alla donna, patti e condizioni, tutto per filo e per segno. Risponde lei: — «Mi piace e ci sto; ma ci vo’ mettere una condizione anch’io». — «Che condizione?» dice Brucino. — «Se fra un anno preciso il mi’ omo non ti può ridare i tu’ soldi, l’anima sua è tua, ma purché tu, prima di poterla pigliare, tu ritrovi tre cose». Figuratevi! il diavolo che sa tutto, non se lo fece ripetere due volte: «Sta bene! Sta benone! Accetto!» Consegna i cinquecento scudi a quell’uomo e dice: «Ohe! fratelli, ricordiamoci bene i patti! Io la memoria l’bo buona; fra un anno preciso a quest’ora sono qui; occhio alla penna!» e sparisce.

A quel poveraccio quand’ebbe i cinquecento scudi in mano gli parve d’essere il più omo ricco del mondo e di potere scrivere al Papa: «Carissimo cugino!» Cinquecento monete! Cinquecento scudi lustrenti che acciecavano! Gli pareva che non avessero a finir mai. Ma una parte se ne dovette andar subito nel tappare i buchi più grossi, vo’ dire nel pagare i debiti più pressanti, perchè a que’ tempi sgusciavano in gatta ferrata come nulla anche i debitori; una parte gli ci vollero per comprarsi un po’ di biada e rifornirsi di qualche attrezzo più necessario, che la su’ casa oramai pareva quella dei topi, e rivestirsi alla meglio, che mostravan le gomita, ridotti propio, come dice il proverbio, con uno zoccolo e una ciabatta. Con quelli che gli rimasero comincio a trafficare e a volere ingegnarsi; le studiava tutte, ma aveva la sperpetua nell’ossa: quando gli diceva bene ce li perdeva mezzi; tanto più ora che il diavolo ci si era messo di piccia a mandargli tutto a trottoloni e a rovesciargli addosso il corbello delle disgrazie; di maniera che, per farvela lunga e corta, passato l’anno e venuto il momento di rirendere la somma, era asciutto come l’esca e pulito come una pianta di mano.

Allo scatto di quell’ora eccoti gii si presenta l’Omo nero: — «Amico, adsum! I miei cinquecento scudi!» — «Caro et amato Asdrubale, hai sbagliato uscio!» — «Come a dire?» — «Come a dire che in sacca mi ci ha tirato vento!» — «Ma io rivoglio i miei cinquecento scudi!» — «O leva sangue a una rapa! Quando non ce n’è, quare conturbas me?» — «Dunque l’anima tua è mia!» — «Adagio! disse Biagio; l’hai a mente i patti? Prima devi trovare le tre cose». — «Sta bene! Eccomi qua!» L’omo va dalla moglie e dice che di là c’è l’Amico Ceragia «e è venuto per quella bazzecola dei cinquecento scudi, se no….» — «Va sulla scogliera del fiume nel punto dove il razzalo è più tirente e buttaci questo sacco di panico, e digli che lo ritrovi tutto fino a un pippolino». Vanno; l’uomo rovescia nella corrente il sacco e dice: «Ritrovami tutti i granellini fino a uno!» E il diavolo si butta giù a forone e in un àmme lo ripesca tutto e lo riporta a quell’uomo. Torna dalla moglie: — «Ragazza mia, la vedo incornata male! Eccolo qui! me l’ ha ripescato tutto!» — «Coraggio e niente paura! To’ piglia questo corbello di penne; buttale al vento nel punto dove ci tiri più forte e digli che te le riporti tutte». Vanno con queste penne, le sparge al vento e gli dice: — «Ritrovale tutte; se ce ne manca una, siamo sciolti!» E il diavolo via a volo come un tappo di saetta! corri di qua, scappa di là, voltati da una parte, prillati da quell’altra, torna indietro, schizza in avanti, gira, frulla e rigira, in un lampo le ripiglia tutte e rimette il corbello pieno in mano a quel poveraccio. Torna dalla moglie co’ capelli ritti: — «Ohimè, Caterina, l’affare ingrossa! Eccoti qui le tu’ penne; le ha ritrovate tutte. Ora ci sono io alla concia del cuoio!» — «Come sei citrullo! tu affoghi propio in un bicchier d’acqua! To’, mangia questi fagiuoli qui anco che siano pogo cotti e rodili bene! poi…» e gli soffiò una cosina in una ciocca d’orecchio. Lui c’impiegò un po’ di tempo a bella posta e quando gli parve d’essere al punto giusto, dice al diavolo: «A noi». — «Che ho a fare?» — «Trovare la terza cosa». — «Lo sapevo; ma si deve camminar molto? E un pezzo che aspetto e io ho il tempo contato». — «No! no! possiamo rimanere anco qui». — «Meglio!» — «Ma tu trovi tutto?» — «Tutto! Hai visto? Io trovo tutto!» — «O be’! allora trovami questa!» e mandò un gran suono per via di que’ fagiuoli mezzi crudi! E il diavolo restò lì propio come Berlicche, senza sapere nè che dire, nè che fare. E quando si rinvenne disse: — «Di lì ci spirò l’anima Giuda! Corda, Crocifisso e boia! Per lo Zio! me l’hai fatta sul grilletto! Ma questa è farina della tu’ donna, perchè tu di tuo, mammalucco, non ci arrivavi». E l’omo rideva. — «Ghigna, ghigna, ladrone! ma il sole non è anche andato sotto, e prima che il giuoco resti, c’è il caso che tu o quel bel mobile della tu’ moglie mi capitiate tra le granfie, e allora ride ben chi ride l’ultimo!»

«Bellissima novella da vero! dirà il lettore; meritava proprio il conto di metterla alle stampe! E che morale ne ricavi?» E e’ è proprio bisogno di ricavare una lezione di morale in modis et formis da tutto quello che si dice e si fa? una semplice risata, se si ottiene, non è già qualche cosa? Tanto mancano le noie nella vita! Tanto delle prediche se ne sente poche da un anno all’altro! Ma poi quando fosse quel momentaccio, non saresti buono di levarci nulla da questo racconto buffonesco? Non vedi che l’uomo non va ridotto alla disperazione, se no è capace di buttarsi a ogni rimedio estremo e gioca di tutto, anco dell’animaccia sua?! E non vedi che siamo in balìa della sorte e che ci sono i fortunati e i disgraziati, che se si mettono a fare i cappelli, nascono gli uomini senza, testa? «Dunque, dirai, tu ammetti la fortuna? Ma chi ammette la fortuna, nega Dio!» Io non ragiono tanto dal tetto in su; io parlo dal tetto in giù e chiamo fortuna tutto quello che mi succede senza che io ci abbia nè colpa ne peccato, ne merito ne demerito. Se son bello o brutto, biondo o nero, fìgliuol d’un ricco o d’un povero, d’un galantuomo o d’un birbante; se son nato con tutti e due i piedi o con uno solo, in città o in campagna, se…. Una volta in una strada c’era un carro fermato davanti a una porta, senza buoi, nè cavalli, nè muli; era là verso le due dopo mezzo giorno. Sulla porta non c’era nessuno, sul carro non c’era nessuno, per quella strada non c’era altro che un ometto che se ne veniva tranquillo pe’ fatti suoi. Arrivato al carro passò dalla parte della porta, chè da quell’altra a mala pena ci si capiva fra il mòzzo e il muro; quando fu precisamente contro la porta, púnfete! un mattonacelo nella testa! e giù in terra mezzo morto. Che era stato? Era stato che nell’orto di quella casa ci lavoravano; dovevan portar via dei sassi, e cinque o sei s’erano messi in fila e facevano il passa passa o la lombardata, come dicono nel Fiorentino, dal dentro al fuori, e l’ultimo di sulla soglia che era giù bassa li buttava sul carro. Eran le due, avevano ricominciato allora e quel pover’uomo si trovò proprio di contro al primo che era scaturito. Domando e dico se poteva mai figurarselo e badarsene! Dirai: «la colpa fu di quelli di dentro, che dovevano attenderci loro e avvisare!» Sta bene; ma per l’uomo di fuori fu una disgrazia che li ci fossero degli scervellati. Anche il figliuolo d’un birbante è nello stesso caso: la colpa è del padre, ma il disgraziato è lui, che non poteva scegliersi da chi nascere! Eccoti lì un ceppo di terra giglia o argilla, to’! è tutta terra a un modo, spolverizzata colla stessa mazzeranga, impastata colla stessa acqua e dallo stesso mattonaio, che farà altrettanti mattoni o mezzanelle o sestini o quadroni colla stessa forma e li cocerà nella stessa fornace; e be’! uno viene più bello, uno meno bello, uno più cotto e uno meno cotto, uno diritto e uno storto e sformato; dieci o dodici di quella ceppata si romperanno e serviranno da pezzame per rincalzi, e quegli altri una parte gioveranno per un altare, una parte per un salotto, una per un pavimento di stabbiolo e una anche per peggio.

Ma giacchè tracchè, dicono a Camaiore, questa novella della fortuna è cominciata alquanto sudicetta, non deve finire molto pulita. Caro lettore, ci vuole un poco di tutto, e sempre in sulle quintessenze dei profumi non ci si può stare. O senti! C’era un uomo al mio paese che in verità era sfortunatissimo. Un giorno fra gli altri aveva giocato a tutti i giuochi che conosceva e aveva perso a tutti. All’ultimo, non sapendo che tentare, fece con uno, che ho conosciuto anch’io, a chi sputava più lontano e giocarono di mezzo paolo, ventotto centesimi. Sputò quell’altro il primo; sbagliò e si sputò ai piedi. «Per die! vincerò questa volta!» e s’imposta empiendosi la pancia di fiato; ma nell’atto di sputare gli venne un colpo di tosse e si sputò sulla barba!!!

Raccontava poi che una volta aveva giocato al giuoco del pidocchio e aveva perso anche a quello. Era un divertimentino che aveva imparato in S. Giorgio una volta che ci era dovuto stare due mesetti per via di certi sgrugnoni dati giusto in sul giuoco al suo avversario. Il bellissimo giuoco del pidocchio dunque consiste nel fare tanti circoli uguali colle seste quanti sono i giocatori; ognuno di questi poi chiappa un inquilino della sua testa, se ce gli ha, e, se non ha la fortuna di possederne, lo piglia in prestito da qualche compagno, e lo posa precisamente nel centro del suo circolo e lì li tengono fermi fino al segno delle mosse. Data la mossa: uno! due! tre! li lasciano liberi, e il primo che esce fuori del circolo, il suo padrone vince. O be’, quella volta che giocò lui, il suo pidocchio s’accucciò lì bello pari come fosse nel suo nidio e quello di quell’altro arrancava verso la circonferenza come se avesse gli sbirri dietro! E poi non c’è la fortuna!!

 

 

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