Un racconto in due puntate di Giuseppe Montiroli.
Seconda Parte.
La mattina presto Mario partì per Bologna. Arrivò a casa verso le dieci e la prima cosa che fece fu di andare a prendere nel suo piccolo ufficio la “valigetta dei ricordi”, come la chiamava lui. Non era mai stato un maniaco ma aveva collezionato tutto ciò che riguardava “la prima volta”. Aveva conservato la prima maglia azzurra, la prima maglia in serie A e la prima maglia in Coppa dei Campioni e le teneva sottovetro appese a mò di quadro nel salotto buono. Era un po’ kitch ma se ne fregava altamente. Aveva anche il pallone del suo primo gol anche se sapeva benissimo che difficilmente era proprio quello visto che poi durante la partita i raccattapalle li mischiano. Ma andava benissimo lo stesso e lo teneva su di una mensola proprio lì, nel suo ufficio. E poi conservava anche gli articoli della “prima volta” ed era questo che cercava. Prese la cartellina di plastica rigida dal cassetto della scrivania e cercò quello che riguardava quei Giochi. Trovò subito tre foto in bianco e nero dei quotidiani sportivi ma non era quello che voleva. Quello che voleva era quel numero del Guerin Sportivo del 1983. All’interno c’erano le foto delle Nazionali di calcio che partecipavano ai Giochi del Mediterraneo. Cercò la foto del Marocco. Era due pagine dopo quella dell’Italia ed era a colori, come tutte. Cercò in basso i nomi dei giocatori e lo vide. Terzo accosciato da sinistra. A. Beazziz. No quello era suo fratello, Abdallah. Ah, eccolo, era vicino a lui. M. Beazziz. Mansour Beazziz. Anche se erano passati venticinque anni era rimasto pressoché identico. Nella foto tutti i giocatori avevano quell’aria fiera di chi rappresenta il suo Paese. Quelli in piedi stavano petto in fuori e testa leggermente reclinata all’indietro come chi guarda dall’alto verso il basso. Quelli accosciati in realtà non lo erano, avevano un ginocchio a terra e le braccia incrociate sul petto come nelle foto delle squadre dei primi del ‘900 ma avevano lo stesso sguardo quasi minaccioso. Mansour invece sorrideva e riconobbe immediatamente il sorriso di quel venditore di collanine. Nulla come un sorriso rimane uguale nel tempo. Chinò la testa, appoggiò i palmi delle mani sulla fronte e chiuse gli occhi.
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L’Italia e il Marocco si giocavano tutto in quella partita e a nessuno serviva il pareggio perché la Spagna stava prendendo il volo.
“Mario mi raccomando, occhio al dieci. E’ veloce, furbo e molto molto tecnico. Se gli fai arrivare la palla sono dolori per tutti” gli disse il mister.
“Tranquillo mister – rispose Mario – lo farò nero” e rise per quella che gli era sembrata la battuta dell’anno.
Ma poi in campo le cose andarono diversamente. Quel ragazzo era ancora più forte di quanto gli avevano detto e di quanto lui stesso si fosse immaginato. Finte, controfinte, scatti, dribbling secchi, stop a seguire, assist, cross, tiri. E una straordinaria intelligenza tattica. Insomma, non era il classico dribblomane fine a sè stesso ma un vero e proprio regista. Mario faticava a stargli dietro e spesso si attaccava alla sua maglietta come aveva visto fare a Gentile con Zico e Maradona un anno prima. Calci no, non era un vigliacco e non entrava mai per far male. Era un duro ma quando faceva un tackle cercava comunque sempre la palla. E se invece prendeva il piede chiedeva scusa. Sempre. Mancava un quarto d’ora alla fine e il risultato era un inutile due a due. Per l’Italia avevano segnato i due attaccanti. Un contropiede e un colpo di testa su calcio d’angolo. Ma ogni volta erano stati raggiunti. Due punizioni di Mansour Beazziz. E i due falli li aveva commessi lui per fermarlo. La prima punizione fu una traiettoria perfetta. Palla colpita forte e liftata e fatta girare sopra la barriera per finire la sua corsa proprio lì, dove non ci arriva mai nessuno. La seconda invece fu una cannonata che entrò vicino al palo coperto dal portiere che neanche la vide partire. Né tantomeno arrivare, perché anche lui come tutti si era aspettato un tiro simile al precedente. Mancava un quarto d’ora alla fine e tutti in campo avevano la bava alla bocca per lo sforzo e per il caldo. Era una palla innocua che scendeva lenta a centrocampo. Lui era di spalle e quando gli arrivò a un metro d’altezza si girò per colpirla con violenza e rilanciarla in attacco. Era di spalle e non aveva visto Mansour Beazziz che per l’ennesima volta lo stava anticipando soffiandogli quella palla a mezz’altezza da dietro. Era di spalle, non l’aveva visto. Il suo piede andò a stamparsi sul ginocchio dell’avversario producendo uno strano rumore. Se lo ricordava ancora bene quel rumore, era fastidioso. Era lo stesso rumore che fa un macellaio quando taglia con esperta violenza una bistecca con l’osso. Sordo e stridente nello stesso tempo. Solo allora lo vide. E lo sentì. Lo sentì urlare di dolore come non aveva mai sentito urlare nessuno prima di allora. La rotula sembrava essere salita a metà coscia e la gamba era piegata in una posizione assurda. Lo portarono via in barella e ancora si sentiva il suo pianto nel grande stadio improvvisamente ammutolito. Si chiese quanto male può fare un ginocchio a pezzi da far urlare così tanto. La partita finì due a due in un silenzio irreale. Niente più contrasti, niente più tackle. Solo una gran voglia di finire quel cazzo di partita. E al più presto, anche sela Spagnase ne volava via al turno successivo. L’arbitro capì la situazione e fischiò la fine con due minuti di anticipo e quell’esperienza in maglia azzurra fu l’ultima per parecchi di loro, anche per Mario Astolfi. Arrivati nello spogliatoio si fece accompagnare da un dirigente a vedere come stava quel ragazzo ma gli dissero che l’avevano già portato via. La sera in albergo telefonò all’ospedale e con l’ausilio di un interprete parlò con suo fratello Abdallah e seppe che l’avevano operato. L’indomani ripartirono e lentamente, col tempo, cercò di dimenticare il tutto. Un mediano non può giocare con quei ricordi altrimenti è meglio che cambi mestiere.
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Arrivato in sede si diresse subito da Antonella.
“Signor Astolfi, cose ci fa qua? Non doveva essere al mare?”
“Sì, certo ma stasera devo vedere un procuratore ed ho dimenticato a casa alcuni documenti da fargli firmare”
“Lei che si dimentica dei documenti! Questa me la segno.”
“Ah senta ieri ho fatto una scommessa con un mio vicino di ombrellone. Lei ha modo di vedere chi era il direttore sportivo del Bologna nel 1983?”
“Non ne ho bisogno, è l’anno che sono stata assunta qui e lo ricordo benissimo. Era il Maestro”
Il Maestro era una figura quasi mitologica. Prima calciatore di alto livello, poi allenatore vincente ed infine grande scopritore di talenti. Ora si era ritirato a vita privata, era vecchio ed era tornato nella sua Modena.
“Ah, il Maestro! Lo sapevo, ho vinto una cena. Grazie Antonella”
Uscì e salì in macchina. Sapeva perfettamente dove abitava quel mostro sacro visto che era stato a casa sua una decina di volte a pranzo o a cena. Enrico Venturati si chiamava ma per tutti era “il Maestro”. Memoria storica del calcio, anche adesso che era in pensione riceveva spesso visite e telefonate. Amava raccontare che una mattina un procuratore gli telefonò per chiedergli se si poteva fidare della parola di un certo dirigente riguardo al trasferimento di un giocatore. Poi al pomeriggio gli telefonò quel dirigente chiedendogli se si poteva fidare di quel procuratore. Infine all’ora di cena gli telefonò il giocatore in questione chiedendogli se poteva fidarsi di tutti e due. Il tutto ovviamente ognuno all’insaputa degli altri. Ogni volta che lo raccontava rideva di gusto. Lo invitavano spesso anche alle trasmissioni sportive e i suoi aneddoti erano sempre ricchi di nomi e date. Anche Mario lo chiamava ogni tanto per avere informazioni.
La villetta era bianca con un giardino ben curato.
“Chi è?” chiese una voce resa metallica dal citofono
“Signor Venturati sono Mario Astolfi ho bisogno di un favore”
Un minuto dopo era già in casa. Il Maestro era un vecchio e alto signore con le spalle ancora dritte, ben vestito e dall’aria vagamente aristocratica.
“Astolfi, che piacere vederla! Non so di cosa ha bisogno ma so di cosa ho bisogno io. La sua compagnia a pranzo. Sa com’è, la solitudine…”
Mario accettò volentieri, quell’uomo era carismatico e per lui averlo davanti era come per un prete di campagna avere davanti il Papa.
“Allora, questo Bologna si salva anche quest’anno?”
“Speriamo. Intanto sto cercando alcuni giocatori di rinforzo. Ho preso De Carli”
“De Carli? Chiamalo rinforzo… Un bel colpo, bravo Astolfi. E’ un ottimo giocatore. Giovane, serio e pronto per la serie A. Lo seguivo già due anni fa in C1, fra un paio d’anni farà la differenza”
Mario non aveva dubbi, il Maestro da quando era rimasto vedovo andava a vedere tutte le domeniche una partita nel raggio di cinquanta chilometri e conosceva tutti.
“Di cosa aveva bisogno?” chiese mentre metteva su l’acqua per la pasta. Era anche un ottimo cuoco.
“Un’informazione. 1983. Giochi del Mediterraneo”
“Ah, ieri praticamente. Non so se posso ricordarmi di qualcosa di tanto tempo fa, tranne che lei li giocò” disse sorridendo e prendendo il sale grosso da una mensolina.
“Se le dico Mansour Beazziz?”
Il Maestro lo guardò per qualche secondo.
“Perché mi fa questa domanda?”
“Se lo ricorda? Mi dica, è importante”
“Certo che me lo ricordo. Era un nazionale marocchino molto giovane e molto forte. Il miglior calciatore africano dell’epoca. In quegli anni stavano venendo fuori bene gli africani. Camerun, Algeria e lo stesso Marocco. E piano piano anche la Nigeria. Comunque Beazziz lo voleva la Juventus perché in quegli anni si potevano tesserare due stranieri ma voleva prima verificare il suo impatto nel campionato italiano. L’avrebbero preso anche subito ma il francese e il polacco facevano faville. Così ci proposero di tenerlo noi per un anno e ridarlo a loro se ne avessero avuto una buona impressione e soprattutto bisogno. O magari l’avrebbero riprestato a qualche altra squadra aspettando il momento migliore per portarlo a Torino. Andai personalmente a vederlo giocare un paio di volte in Marocco, per quei Giochi del Mediterraneo. Ne rimasi impressionato e già mi fregavo le mani all’idea di avere a disposizione un regista così, anche se sicuramente per un solo anno. Dovetti ripartire il giorno prima che…”
“Il giorno prima che gli troncassi la carriera” Mario finì la frase che il Maestro non aveva voluto finire.
“No. Il giorno prima che ebbe un incidente di gioco. Grave sì, ma sempre un incidente di gioco. Lei Astolfi è sempre stato un giocatore leale. Duro ma leale. E adesso mi dia una mano ad apparecchiare che l’acqua sta per bollire”
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Il giorno dopo Mario era di nuovo lì, a Viareggio. La mattina la passò in albergo a leggere distrattamente i giornali sportivi ma quel pensiero non gli andava via dalla testa. Doveva parlargli e non vedeva l’ora che fossero le sei del pomeriggio. Quando lo vide spuntare fra gli ombrelloni stava giocando con i suoi nuovi amici ma improvvisamente ebbe voglia di scappare via, si sentiva come un ladro davanti all’ignaro derubato. Rimase e giocarono un po’ poi si sedettero nello stesso posto del giorno prima a fumare una sigaretta.
“Allora Mansour, eri rimasto all’infortunio. E poi?”
“Poi cosa?”
“Beh, cosa hai fatto nella vita. Come sei finito qua a Viareggio”
“Dopo l’operazione la Federazione mi mandò a Firenze per farne un’altra. Dicevano che qui in Italia c’erano i migliori specialisti. O almeno i migliori fra quelli che si potevano permettere. Evidentemente la prima me l’aveva fatta un macellaio. Lì mi dissero che ero stato fortunato a non rimanere zoppo. Quindi fine col calcio. Durante la riabilitazione ho conosciuto una ragazza che aveva avuto un incidente d’auto e ci siamo sposati. Con i pochi soldi dell’assicurazione abbiamo messo su casa. Dopo meno di un anno se n’è andata. Avevo trovato lavoro come custode in una squadra di interregionale vicino a Firenze e mi trovavo bene. Me l’aveva trovato il dottore che mi aveva operato, una brava persona. Poi successe che sparirono dei soldi in segreteria e diedero la colpa a me. Così mi licenziarono ma io quel giorno non c’ero neanche passato in sede. Poi ho risposto ad un annuncio dove cercavano un lavapiatti per la stagione estiva qui, a Viareggio. Finita la stagione ho fatto il muratore per più di vent’anni fino a quest’inverno poi l’impresa è fallita. Così sono andato a vendere in spiaggia”
Mario ascoltò in silenzio il racconto di quest’uomo davanti a lui, Nelle sue parole non c’era tristezza ma solo un malcelato orgoglio di chi comunque viveva.
Lo invitò a cena al ristorante dell’hotel ma lui rifiutò sentendosi poco presentabile. Mario lo convinse dicendogli che avrebbe fatto una bella doccia in camera sua e che gli avrebbe fatto indossare una bella tuta del Bologna che poi si sarebbe potuto tenere. E quando lo vide ancora tentennante aggiunse che quella era la sua ultima sera a Viareggio. L’aveva deciso pochi istanti prima, voleva assolutamente fare una cosa in sede.
A cena gli parlò di sé e del suo lavoro e gli disse anche che ora era dirigente del Bologna, in serie A. Ma glielo disse quasi di sfuggita, per una sorta di pudore. Poi gli chiese il numero di telefono.
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Mansour aveva preso seriamente il suo lavoro. La società gli aveva fatto un regolare contratto da allenatore delle giovanili e gli aveva affittato un piccolo appartamento a due passi dallo stadio ad un prezzo ragionevole. Quando Mario gli telefonò dicendogli che aveva un lavoro per lui pensò subito ad un posto come lavapiatti o muratore. Invece la mattina andava all’allenamento della prima squadra. Allenava i portieri con i suoi tiri in porta e le sue magiche punizioni, portava in campo le casacche per la partitella e soprattutto teneva alto l’umore di tutti con la sua simpatia. Era benvoluto dalla squadra e non voleva soldi in più dalla società per andare anche alla mattina, diceva che lo faceva volentieri perché si divertiva. E come dargli torto, poteva stare fianco a fianco di giocatori di serie A. Comunque il presidente decise di non fargli più pagare l’affitto dell’appartamento. Quando Mansour chiese il motivo gli rispose “Tanto non ci sei mai a casa, sei sempre al campo d’allenamento!”. Poi il pomeriggio con i bambini e lì si divertiva ancora di più. Insegnava loro a stoppare, passare, calciare in porta, crossare, colpire di testa. E quando vedeva qualcuno che migliorava era felice. “Senza la tecnica un calciatore è come un cantante stonato” amava ripetere. Il Bologna era una società che curava molto il settore giovanile ed avere uno come lui era una fortuna. Per gli schemi, la tattica e il fuorigioco avevano tempo, adesso c’era solo il pallone poi il pallone ed infine il pallone. Ma c’era una cosa che era cambiata in lui. Non aveva più parlato del suo passato e del suo infortunio e quando qualcuno gli chiedeva se avesse giocato da giovane rispondeva sempre che in Marocco aveva dovuto lavorare e quattro calci li aveva dati solo in spiaggia con gli amici. D’altronde era impossibile ricordarsi di una promessa del calcio africano di un quarto di secolo prima, a meno che non ti chiamavi Maestro. Lui e Mario erano diventati amici e quando alla sera c’erano le partite di Coppa organizzavano una cena a casa sua. Invitavano sempre anche due giocatori, uno della prima squadra e uno delle giovanili. “Così si fa gruppo” diceva Mansour. Ci capiva di calcio e conosceva le squadre e i giocatori, anche quelli turchi e norvegesi. Mario dal canto suo non aveva mai trovato il momento giusto per dirgli qualcosa, anzi “quella cosa”. O meglio, non aveva mai trovato il coraggio. Una volta si era deciso e si era preparato il discorso ma quando arrivò a casa sua lo vide aprirgli la porta ridendo come un matto perché stava guardando un film comico alla tele e non se la sentì più. Ma proprio più.
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Lo stadio era pieno come un uovo e rumoreggiava mentre Mansour sistemava il pallone. Fra lui e il gol c’erano solo venti metri, una barriera e un portiere.
Che avrebbe giocato l’aveva saputo da Mario lunedì sera alla fine della cena, a casa sua. Il Bologna aveva vinto in casa ed era salvo con una giornata di anticipo. Un altro anno in serie A. Sarebbero andati a giocare l”ultima a Torino contro la Juventus che a sua volta avendo vinto fuori casa era già matematicamente campione d’Italia.
“Preparati bene questa settimana che domenica ti facciamo entrare contro la Juventus” gli aveva detto Mario mentre bevevano il caffè.
“Chi mi fa entrare, scusa?” chiese Mansour guardandolo come si guarda un comico che ha appena detto una battuta venuta male.
“L’allenatore. Il presidente. E io, ovviamente. Avevo fatto una scommessa con loro. Appena salvi io avrei giocato il quarto d’ora finale dell’ultima partita. E loro hanno accettato la scommessa, sai sono scaramantici… Ma ora succede che ho preso un bel mal di schiena e non posso più giocare. Così ho proposto a loro di farlo tu al posto mio. Oh, solo gli ultimi minuti mica dall’inizio. L’allenatore non ha niente in contrario e il presidente dice che è una bella operazione di marketing. Operazione-simpatia, la chiama lui”
“No, non è per questo che lo fai. E’ per questo” e così dicendo Mansour si avvicinò alla piccola libreria, prese un foglio ben ripiegato e glielo mostrò. Era una fotocopia di una vecchia pagina di un giornale scritta in arabo. Mario non capiva cosa c’era scritto ma il senso sì. In alto c’era la foto di un giovane Mansour con la maglia della sua Nazionale e vicino un’altra foto sempre di Mansour ma in un letto d’ospedale. E sotto la foto di Mario da giovane.
“Sotto la tua foto c’è scritto IL KILLER ITALIANO “ disse Mansour guardandolo dritto negli occhi.
Mario sobbalzò.
“Da quand’è che lo sai?” gli chiese non reggendo il suo sguardo.
“Da quando sono arrivato qui. Mio fratello ha un’ottima memoria e quando ho fatto il tuo nome ha cercato in un archivio questa pagina, l’ha fotocopiata e me l’ha spedita”
“Mi dispiace” Mario si senti stupido per non riuscire a dire nient’altro.
“Anche a me è dispiaciuto all’epoca ma ormai fa parte del passato. Anche Abdallah smise di giocare un anno dopo. Problemi col cuore, si vede che era destino che i fratelli Beazziz non sfondassero col calcio. Ho sempre saputo che mi avevi cercato prima nello spogliatoio e poi all’ospedale anche se non avevo mai saputo chi eri. Me lo disse mio fratello. ”
“E’ vero ma questo non mi fa stare meglio. Sono stato un vigliacco e tacere per tutto questo tempo vicino a te”
“Quando scoprii il tutto mi venne in mente la volta che mi portasti a cena in hotel e la tuta del Bologna. Lo sapevi già, vero?”
“Sì, l’avevo scoperto quella mattina stessa”
“E’ per questo che mi hai voluto qui. Tu mi hai tolto un sogno e tu hai voluto regalarmene uno nuovo. Sei un uomo onesto, Mario” e aggiunse “E se mi rifiuto?”
“Hai sempre un ginocchio buono da farti rompere” Si abbracciarono forte, tanto forte che Mario gli disse:
“Piano che altrimenti la schiena mi farà male per davvero”
Risero di gusto, come solo gli adulti che tornano bambini sanno fare.
Durante la settimana la notizia venne divulgata ai media e l’operazione-simpatia piacque un po’ a tutti. Talmente tanto che un giornalista un po’ troppo curioso scoprì anche il retroscena, ma questo l’avevano messo nel conto e non gliene fregava più di tanto. Poco prima che la partita iniziasse Mansour aveva prenotato sei o sette maglie ricordo della Juventus e fu colpito quando il vecchio e glorioso capitano bianconero gli chiese di poter avere la sua a fine partita. Stava per dirgli di no, che voleva conservare la prima ed unica maglia in serie A ma poi si ricordò che poteva disporne di più di una. Diede la mano al suo idolo e quasi svenne.
La partita si trascinava stancamente ma serenamente sullo zero a zero. Nessuno voleva farsi male in quella che era più che altro una passerella di due squadre che avevano già raggiunto il loro obiettivo. E quando al settantacinquesimo minuto, lo stesso minuto in cui smise di giocare tanti anni prima, l’allenatore lo spedì in campo ci fu un breve ma convinto applauso. Non udì neanche lo speaker fare il suo nome per l’emozione. Trotterellava per il campo senza riuscire a toccare un pallone. Quando camminava gli altri correvano e quando correva gli altri volavano. E sì che i compagni ci provavano a dargli la palla ma veniva sistematicamente anticipato dagli avversari. A quei livelli non si fanno sconti a nessuno. Poi successe che l’arbitro fischiò un fallo fuori area. Mansour non ci pensava nemmeno a tirare quella punizione ma gli si avvicinò De Carli, lo specialista, e gli chiese se se la sentiva. Fece finta di non aver capito. Poi arrivò il capitano e gli impose di tirarla. Allora si girò verso la panchina e vide che l’allenatore e tutti quelli vicino gli facevano ampi gesti con le braccia. Una cascata di emozioni sembrò soffocarlo. Prese il pallone e lo sistemò nel punto che l’arbitro gli aveva indicato. Lo sistemò con quella cura maniacale che hanno solo gli specialisti. Fra lui e il gol c’erano solo venti metri, una barriera e un portiere. E mentre l’arbitro sistemava la barriera cercò lo sguardo di Mario in tribuna. Fortuna che non lo vide, altrimenti l’avrebbe visto piangere. Poi sentì il fischio dell’arbitro, si dimenticò il mondo e prese una breve rincorsa.
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