Un racconto in due puntate di Giuseppe Montiroli.
Prima Parte.
Mario era in vacanza in Versilia. Viareggio era un punto d’arrivo e fare due settimane al mare lì significava che nella vita, in qualche modo, avevi svoltato. Specialmente se alloggiavi in un hotel a molte stelle. E poi potevi incontrare anche qualche calciatore che ti poteva interessare. Perché Mario Astolfi era un direttore sportivo. Era stato un buon giocatore. Giovanili di alto livello e quindici anni di carriera spesi fra serie A e serie B. Era stato fortunato ed aveva partecipato, appena ventenne, ai Giochi del Mediterraneo e quella maglia azzurra sembrava il viatico per una brillante carriera. In seguito aveva vinto uno scudetto anche se non da protagonista, aveva giocato in Coppa dei Campioni e in Coppa UEFA. Poi era iniziato un lento peregrinare in squadre che lottavano per non retrocedere in B ed altre che lottavano per essere promosse in A. Poi dieci anni prima da addetto all’arbitro poi dirigente accompagnatore ed ora una brillante carriera da direttore sportivo. Il tutto a Bologna, l’ultima squadra in cui aveva giocato e la dimensione provinciale gli permetteva di lavorare con tranquillità. Poteva lanciare un paio di giovani all’anno. Anzi, doveva. Aveva quarantacinque anni ma ne dimostrava dieci di meno. Correva tutte le mattine, anche sotto la pioggia, anche in vacanza, anche per far passare due linee di febbre. Era divorziato e senza figli. L’unico vizio che si concedeva erano quattro o cinque sigarette al giorno e mai prima di pranzo. Aveva sempre corso in campo. Era un mediano, di quelli che rubavano i palloni a centrocampo e li portavano direttamente ai piedi del regista. Non era mai stato il capitano perché girava molte squadre ma un idolo dei tifosi quello sì, ovunque andava.
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“Buongiorno signor Astolfi, resti in linea le passo il presidente” la voce era di Antonella, la segretaria storica del club.
Seguirono quindici secondi di attesa poi
“Buongiorno Mario come va?”
“Bene presidente, quando ci si riposa va sempre bene”
“Ha sentito De Carli?”
“Sì, e stasera a cena vedrò il suo procuratore. Penso che alla fine si farà, ha l’età giusta per fare il salto in seria A”
“Bene, allora ci sentiamo domani”
“Certo, la chiamo io in sede”
La squadra aveva bisogno solo di qualche ritocco. Era una società che ogni anno doveva lottare fino alla fine per non retrocedere ma ce la faceva comunque. E lui era un mago nello scoprire giovani promesse e nel rilanciare qualcuno dal dimenticatoio.
Erano le sei di pomeriggio, l’ora migliore per godersi la spiaggia. Lentamente la gente andava via e i ragazzini si impadronivano del bagnasciuga per dare quattro calci ad un pallone. Li guardava con occhio clinico, non poteva farne a meno. Dopo due tocchi capiva chi prendeva a calci il pallone e chi invece ci sapeva fare. Quando doveva scegliere un giocatore si preoccupava sempre che avesse una buona tecnica di base. Anche se era un terzino o uno stopper. Li chiamava ancora così e gli faceva ridere come li chiamavano adesso. Laterale difensivo, difensore centrale. E lui adesso sarebbe un quarto basso nel centrocampo a rombo. Invece era stato solo un “semplice” mediano. Come se adesso si volesse dare nobiltà a dei ruoli già nobili di loro. Una volta quando gli chiedevano in che ruolo giocava rispondeva “quattro” e tutti capivano subito il ruolo e la posizione in campo. Bah!
Gli sarebbe piaciuto aggregarsi ma si sarebbe sentito ridicolo.
Mentre li guardava palleggiare fra loro sentì una voce vicina, troppo vicina per i suoi gusti. Era un marocchino, di quelli che in spiaggia vendono di tutto. O almeno pensava fosse marocchino, basta che uno venda qualcosa in spiaggia ed è un marocchino anche se è senegalese o cingalese. Aveva più o meno la sua età, e questo un po’ lo mise a disagio. Vestiva un paio di pantaloni leggeri color nocciola, una maglietta grigia e indossava un paio di sandali. Era magro, anzi asciutto. Stava trattando la vendita di una collanina di basso pregio [ad] con una ragazza due file prima della sua. Mario raccolse velocemente le sue cose e si incamminò verso l’hotel.
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Il giorno dopo telefonò di prima mattina in sede per confermare l’interesse del procuratore riguardo al trasferimento di De Carli. Si trattava di un’ala vecchio stampo, di quelli che ce ne sono sempre di meno tutto corsa, dribbling secchi e cross tagliati. Segnava anche qualche gol ed avrebbe fatto comodo per il prossimo anno. Era contento, Mario. Telefonini ed internet agevolavano il suo lavoro e lo rendevano possibile anche standosene sdraiati su un lettino in spiaggia. Anche alle sei di pomeriggio.
Questa volta non lo sentì arrivare e se lo ritrovò di fianco.
“Ciao, vuoi comprare qualcosa?”
Il sorriso del marocchino lo colpì per la bianchezza dei denti che facevano contrasto con la pelle leggermente scura. Guardò distrattamente la mercanzia che si portava appresso. Collane, finti Rolex, accendini e cd masterizzati.
“No grazie, non mi serve niente”
Avrebbe voluto essere più duro nella voce ma l’età insolitamente avanzata dell’uomo per quel lavoro lo frenò.
“Allora ciao amico” disse il marocchino allontanandosi senza insistere. Appena passò vicino al solito gruppetto di ragazzi lo vide appoggiare sulla sabbia la mercanzia.
“Mansour! Fai due tiri, dài” disse uno di quelli bravi (ormai li riconosceva). E così dicendo gli tirò il pallone. Mansour non se lo fece ripetere e stoppò la palla con maestria. Fece una decina di palleggi e ripassò la palla a quello più vicino. Quando gli ritornò la fermò al volo sul collo del piede, poi con naturalezza la trasferì sulla fronte e la fece scivolare dietro la testa fermandola sulla nuca. Continuarono così per dieci minuti durante i quali Mario capì che fra il marocchino e i ragazzi c’era un rapporto datato. Lui li chiamava per nome o per soprannome e si divertiva come un matto. Sdraiato sul suo lettino provò una sorta di invidia verso quel coetaneo che giocava a pallone con ragazzini che potevano essere suoi figli. Poi ad un certo punto Mansour salutò il gruppo dando il cinque a tutti, raccolse la mercanzia e se ne andò.
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Non sapeva il perché ma aspettava le sei del pomeriggio. Anzi, lo sapeva ma non voleva ammetterlo neanche nel pensiero. Quell’uomo, sì insomma quel marocchino venditore di collanine lo aveva incuriosito. Talmente tanto che quando arrivò gli comprò due cd masterizzati. Due compilation anni ’80. Una perché c’era Brian Ferry e una perché c’erano i Tears For Fear e i Talk Talk. E tutte e due perché doveva essere duro andare su e giù per la spiaggia per ore e ore con un borsone a tracolla. Mansour gli sorrise, lo ringraziò e si avvicinò al solito gruppetto di ragazzini che nel frattempo l’avevano già chiamato un paio di volte. Appoggiò il borsone sulla sabbia, si sfilò i sandali e si unì al gruppo. Dopo qualche virtuosismo uno di loro entrò in acqua fino alle ginocchia e gli altri dalla riva lo bombardarono di tiri. Finché uno disse
“Mansour, le punizioni”
Allora Mansour prese il pallone e lo sistemò con cura mentre i ragazzini improvvisarono una barriera dando le spalle al mare. Mansour fece partire il pallone. Lo colpì con l’interno del piede e dopo aver disegnato un arco sorvolando la barriera improvvisata finì dritto dritto nelle mani del ragazzino in acqua. Solo in quel momento Mario capì perché il ragazzino era rimasto fermo con le mani in alto.
“Questo è culo” pensò Mario.
Mansour riprese il pallone e ripeté lo stesso tiro ma da un’angolazione diversa. Anche stavolta il ragazzino in acqua non dovette far altro che stringere le mani attorno al pallone, senza spostarsi da dove era.
“Questo no” stavolta a Mario la frase gli uscì sibilando a mezza voce fra i denti stretti.
Infine prese il pallone e si ritrasse di qualche metro. Prese una breve rincorsa partendo dalla parte opposta alle precedenti, come se questa volta avesse voluto calciare di sinistro. Il tiro partì invece di esterno destro, compì una parabola arcuata e finì ancora fra le mani del portiere in acqua.
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Mario aveva studiato un piano. Se voleva giocare con loro doveva essere furbo. Verso le cinque e tre quarti si alzò dal lettino e si avvicinò al bagnasciuga fingendo di osservare un punto lontano. C’era anche una nave al largo, meglio. Ebbe cura di fermarsi cinque o sei metri più in là dei ragazzini, in un punto dove aveva visto che ogni tanto finiva il pallone e qualcuno di loro doveva fare una corsetta per riprenderlo. La palla bianca non tardò ad arrivargli a tiro. Fingendo di accorgersi solo in quel momento che qualcuno vicino a lui giocava a pallone la fermò mettendoci il piede sopra sorridendo ai ragazzi. Poi la alzò e fece qualche palleggio prima di passarla a quello più vicino a lui. Ai ragazzini piace giocare a calcio con i grandi, era lo stesso anche per lui da piccolo. E’ come un modo per essere sdoganati e la presenza di un adulto fra loro in spiaggia era un ombrello contro gli immancabili reclami dei bagnanti. Così fu naturale per loro rilanciargli il pallone. Mario mise in mostra il suo bagaglio tecnico. Era stato un mediano, è vero, ma non uno di quelli scarsi. Tecnicamente avrebbe potuto fare anche la mezzala, anzi l’aveva fatta in qualche partita. E in quei casi aveva messo la maglia con il numero otto. Mario si era messo in modo che potesse vedere quando arrivava il venditore di collanine e quando lo scorse fra gli ombrelloni fu contento. Anzi, fu proprio lui a tirargli la palla per primo. Mario guardava giocare Mansour ed era evidente che con un pallone fra i piedi era il più felice di tutti, oltre che il più bravo. Anche Mario era bravo e Mansour se ne accorse subito. Fra i due adulti si stabilì una complicità fatta di sorrisi e di complimenti. Fecero anche una minipartita. Loro due contro tutti nata così, per caso, perché si passavano la palla fingendo scherzosamente di ignorare la presenza dei ragazzini. Finché Mansour si fermò e si sedette più in là, vicino al suo borsone e ai suoi sandali. Mario lo raggiunse e, un po’ ansimante, abbassò il corpo in avanti appoggiando le mani sulle ginocchia.
“Stanco, eh?” gli chiese come per cercare conforto al suo fiato momentaneamente corto.
“No, è il ginocchio. Quando lo sforzo mi fa sempre così. Posso camminare ore ed ore ma correre…”
Mario si accorse solo allora del curioso accento toscano di Mansour. E’ quell’accento che prendono gli stranieri che imparano l’italiano da zero risiedendo tanti anni in un unico posto. E così capitava di sentire albanesi con inflessione pugliese e rumeni con cadenza veneta. Mansour parlava comunque un ottimo italiano.
“Sigaretta?” chiese prendendo un pacchetto di Pall Mall da una tasca del borsone.
“Sì grazie” rispose Mario più che altro preoccupato di far vedere che il fiato ce l’aveva ancora
Prese la sigaretta offertagli, la accese e tirò una lunga boccata.
“Certo che ci sai fare col pallone. Ieri ti guardavo dal lettino”
“Se non era per questo ginocchio…”
”Se non era per quel ginocchio?” la domanda conteneva una vena di sarcasmo che Mansour comunque non colse.
“Da giovane ero una promessa. In Marocco ero famoso e tutti dicevano che avrei fatto carriera. Poi mi sono rotto il ginocchio e addio sogni di gloria”
“Sì, dicono tutti così…” Questa volta Mansour colse il sarcasmo di Mario ma non mostrò fastidio.
“Libero di non crederci. Io e mio fratello Abdallah eravamo bravi, molto bravi. I fratelli Beazziz”
“Bea…?”
“Beazziz. E’ il mio cognome. Comunque fra me e Abdallah quello bravo ero io. Lui era un buon difensore. Io invece ero un regista, giocavo col dieci. Sognavo l’Europa. L’Italia o la Spagna e so che qualche squadra famosa mi seguiva”
“Quali squadre?” Mario non credeva ad una sola parola di Mansour ma non voleva farglielo vedere, era una persona piacevole da ascoltare
“In Spagna il Siviglia e l’Atletico. Ma dall’Italia mi seguiva la Juventus. Credo anche il Bologna, ma non ne sono sicuro”
– Boom! – Pensò Mario sforzandosi di non ridere
“Poi ho partecipato ai Giochi del Mediterraneo, era l’83 e li giocavamo in casa. Mi sembrava un sogno, tutti in Marocco parlavano di me. Ci avevano messo nello stesso girone dove c’erano anche la Spagna e l’Italia, pensa il destino. Proprio i Paesi delle squadre che mi seguivano, una bella vetrina, no?”
Così dicendo si girò verso Mario e non si accorse che l’uomo seduto al suo fianco si era cristallizzato da alcuni secondi. Mansour non attese l’ovvia risposta e continuò:
“Ho giocato le prime due partite segnando tre gol e sapevo che erano venuti anche dall’Italia per vedermi giocare. Poi alla terza partita mi ruppi il ginocchio. Fine delle trasmissioni. E tu? Giocavi?” chiese a Mario come per far capire che voleva chiudere quel discorso.
Mario si sentiva come se qualcuno gli avesse infilato degli spilloni ardenti nel cervello. Cercò di non farlo notare e rispose cercando di mostrarsi il più normale possibile.
“Sì, ho giocato anche in serie A” ma quella frase che doveva essere rivestita d’orgoglio in realtà gli uscì quasi strozzata. Diede la colpa alla sigaretta e gettò il mozzicone ormai arrivato al filtro.
“Sì, dicono tutti così…” disse Mansour sorridendo e rifacendogli scherzosamente il verso.
“Sì ma poco, giusto un anno con poche partite. Poi tanta serie B e mi è anche andata bene” mentì Mario.
“Beh, tu almeno sei stato fortunato”
“Già…”
Mario salutò Mansour e si avviò verso l’hotel.
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