Filippo stava per uscire di casa quando, dalla camera da letto, sua moglie gridò: “Prendi il cappello, che fuori fa freddo!” Già, il cappello; non lo aveva preso.
Come facesse sua moglie Elvira, rannicchiata nel caldo del letto, a sapere che fuori faceva freddo e, soprattutto, che lui non aveva preso il cappello, era un mistero su cui non valeva la pena indagare, anche perché rischiava di arrivare in ritardo al lavoro.
“Me lo metto, stai tranquilla!” rispose Filippo, tornando sui suoi passi. Aprì il guardaroba e scelse una coppola: marrone, per rimanere in tono con il cappotto color cammello che indossava.
D’inverno Elvira aveva la fissa del cappello; lo costringeva a tenerlo sempre in testa con la scusa che ‘nelle sue condizioni’ rischiava di prendersi un brutto colpo di freddo ogni volta che metteva il naso fuori di casa. In effetti la capigliatura di Filippo, anno dopo anno, si era diradata e un cappello, oltre a tenere al caldo il suo cranio lucido, nascondeva la calvizie. “Non mi piacciono né gli uomini grassi né quelli calvi” ripeteva spesso la moglie. Non voleva che ingrassasse: la pancetta che arrivava con la maturità era notoriamente nociva. Filippo era rimasto longilineo ma contro la calvizie, ahimé, non c’erano stati rimedi.
Con le chiavi già in mano per aprire il portoncino dell’appartamento, ben attrezzato per affrontare la giornata fredda, fu raggiunto da un nuovo richiamo: “E stasera ricordati di entrare dal giardino!”
Filippo si fermò: perché diamine doveva rientrare passando dal cancelletto del giardino? Era una qualche nuova stravaganza della moglie? Rimase un attimo con il mazzo di chiavi a mezz’aria, poi chiese perplesso “Perché?”
La voce della moglie, ancora assonnata, aveva il tono di un rimprovero: “Oggi è Halloween, te lo sei scordato?”
“No, come potrei! “ rispose Filippo, che proprio se ne era dimenticato.
Poi aggiunse “A stasera!” e uscì di casa.
La notizia comunicata dalla moglie lo aveva raggelato ben più della tramontana tagliente che lo fece rabbrividire appena girato l’angolo di casa.
Da tempo, ormai, la ricorrenza americana aveva preso piede anche nel suo quartiere, di solito molto tranquillo. La sera di Halloween sciami di bambini si aggiravano per le strade, accompagnati da qualche mamma o da qualche sorella maggiore, e suonavano i campanelli per chiedere dolcetti.
All’inizio sembrava un carnevale fuori stagione ma, negli ultimi anni, i piccoli questuanti erano diventati sempre più insistenti e molesti: per fare le loro richieste circondavano qualche malcapitato che rientrava a casa, si attaccavano ai campanelli e, se nessuno si faceva vivo, iniziavano a schiamazzare come cornacchie oppure prendevano a calci le porte che non si aprivano. Gli adulti che accompagnavano i bambini, invece di rimproverare i piccoli teppisti, si lasciavano coinvolgere nella chiassata o addirittura fomentavano la confusione.
Filippo non aveva un carattere socievole e trovava i bambini insopportabili (lui e sua moglie non avevano avuto figli, “Per fortuna”, come precisava quando veniva interpellato sull’argomento). Odiava il loro strepitare continuo, le corse e gli urli nei corridoi del condominio, la maleducazione e la prepotenza che le piccole belve manifestavano sin dai loro primi anni di vita. E odiava Halloween perché offriva un alibi per dare sfogo ai comportamenti più incivili.
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Quando entrò in ufficio era ancora scuro in volto; Laura, l’addetta alla reception, una briosa ragazza fulva e tondetta, lo accolse con un gran sorriso:
“Buon Halloween!” disse sorridendo. Per Filippo l’augurio aveva il sapore del motteggio. Accanto alla targa in plexiglas e alluminio, con il nome della ditta, faceva bella mostra di sé una zucca di un arancione vivo, intagliata a regola d’arte, al cui interno si accendeva una luce intermittente che simulava, con grande realismo, il tremolare di una vera candela.
“Me l’ha regalata il mio fidanzato – aggiunse la ragazza, seguendo lo sguardo di Filippo – io l’ho portata qui per fare un po’ di atmosfera. Non è spaventosa?” Evidentemente trovava la messa in scena divertente.
“Ti travesti da strega, stasera?” domandò Filippo, facendo appello a tutta la sua affabilità per non andarsene immediatamente in ufficio. Gli occhi verdi della ragazza brillarono:
“Certo! E lei da cosa si traveste?” chiese premurosa.
“Da morte secca! Per travestirmi basta poco, ho già il physique du rôle?”, rispose Filippo, che, ritenendo di aver compiuto il suo dovere di collega educato, si diresse a passi lunghi verso la sua scrivania, senza aspettare una replica.
Anche l’atmosfera in azienda, quella mattina, era condizionata dalla festività; i salvaschermo sui video erano fantasmi che comparivano e scomparivano, streghe che volteggiavano a cavallo di una scopa, pipistrelli che svolazzavano qua e là e gatti neri che, soffiando, arricciavano il pelo impauriti camminando sopra le e-mail, il tutto accompagnato da ululati, gemiti e rumor di catene.
Qua e là, sulle scrivane c’erano delle piccole zucche di plastica con ghigni che volevano essere satanici, scheletri impiccati ad assicelle di legno, pupazzetti di pipistrelli dormienti a capo all’ingiù o appesi ad ali aperte tramite un apposito sostegno e qualche invisibile filo di nylon. I dipendenti scherzavano mostrandosi a vicenda le app per gli smartphone acquistate per l’occasione.
Filippo sapeva che avrebbe dovuto sopportare per tutto il giorno anche quelle sciocchezze, pronto a scherzare sull’argomento con i colleghi, per poi chiudere la serata, a casa, vittima dei piccoli barbari travestiti da fantasmino o da strega.
Quella sera, però, sarebbe stato diverso: lui e sua moglie avevano deciso di smettere il loro ‘abito’ asociale e farsi trascinare dalla festa; si erano davvero organizzati bene. Avevano comprato per tempo i loro travestimenti, un mucchio di addobbi per ‘orrificare’ l’ingresso del loro appartamento, una gran quantità di dolcetti vari e poi… poi anche qualcosa di molto speciale.
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Quando rientrò a casa il freddo era pungente e la luna in cielo occhieggiava tra le nuvole. Ormai era notte e qua e là si cominciavano a sentire le vocine acute dei piccoli assalitori.
Con passo deciso guadagnò la via per il giardino di casa e si chiuse alle spalle il cancelletto: il primo contatto con il nemico era stato brillantemente evitato.
Entrò in casa e si diresse in salotto: nella stanza si trovavano gli arredi necessari per addobbare l’entrata dell’appartamento. La moglie era già al lavoro, stava appendendo pesanti tendaggi neri alle pareti dell’ingresso. Un lugubre telo, steso tra la libreria e l’attaccapanni creava una specie di tunnel, un oscuro antro da catacomba che occupava tutto il corridoio; le lampade dell’ingresso erano state sostituite con tenui lucette colorate di rosso.
Filippo prese un CD che aveva preparato da tempo e lo inserì nel lettore, pronto a sparare cento watt di terrore. Poi, in camera da letto, mise il suo costume: una calzamaglia nera da scheletro, decorata con realistici ossi di plastica, un passamontagna in tinta, un’orribile maschera da teschio e un mantello da conte Dracula.
Anche la signora Elvira, dopo aver dato gli ultimi ritocchi all’addobbo funebre del corridoio, indossò il suo costume. Aveva preparato un travestimento a metà tra la befana e una vecchia cartomante: una veste zingaresca rossa, catene e ciondoli tintinnanti, una parrucca color carbone e un orribile naso aquilino con tanto di neo peloso. Per l’occasione aveva dato sfogo alla sua passione indossando un cappellaccio a punta dalle tese incredibilmente larghe.
Elvira e Filippo si aggiustarono a vicenda le vesti e il trucco, poi sistemarono sul tavolo di cucina alcuni cestini di vimini traboccanti di dolcetti, caramelle, cioccolatini e bottigliette dal contenuto imprecisato.
Dopo una mezz’ora fuori dal portoncino si udì un gran scalpiccio. Vocine acute bisbigliavano e ridacchiavano accanto al portoncino: il momento tanto atteso era giunto. Qualcuno suonò il campanello ma con poca convinzione: tutti sapevano che ‘quelli lì’, una coppia di vecchi antipatici, non avrebbero mai aperto; lui poi reagiva sempre con rabbia quando lo circondavano e facevano il girotondo gridando “Dolcetto o scherzetto” e quando, alla fine, riusciva a rompere il cerchio, se ne andava infuriato, borbottando “Andate al diavolo, voi e il vostro Halloween, razza di maleducati!”
Questa volta però le cose presero una piega inaspettata; la porta lentamente si socchiuse ma nessuno fece capolino da dietro l’anta: la casa era al buio e sembrava disabitata.
I ragazzini, stupefatti e intimoriti, rimasero immobili ma i più audaci del gruppo, superato l’iniziale spavento, si avventurarono oltre la soglia. Subito le lucine rosse del corridoio si accesero e, in fondo al tunnel artificiale creato dai tendaggi apparve una strega davvero brutta. La vecchiaccia ghignò e, rivolgendosi ai piccoli invasori con voce melliflua disse:
“Venite, carini, venite! i dolcetti sono qui!”
Per essere più convincente la strega mostrò un cestino colmo di pacchettini colorati e di caramelle.
A quel richiamo anche i bambini rimasti fuori si fecero coraggio ed entrarono spintonandosi. Volevano la loro parte! Quando già stavano per arraffare tutto quel ben di dio, di dolciumi la casa, all’improvviso, si riempì di rumori paurosi, catene trascinata, strida di pipistrelli, ululati e urla agghiaccianti; le lucine rosse divennero intermittenti e i bambini si ritrovarono quasi al buio, in un tunnel senza uscite, circondati da ombre spaventose e suoni terribili. Senza contare la brutta strega che, allungando una mano, avrebbe potuto afferrarli per i capelli.
Dopo qualche secondo un grido altissimo e disumano coprì tutti gli altri rumori, sembrava il lamento di una creatura dilaniata da una belva: era la colonna sonora che annunciava l’entrata in scena del signor Filippo, o meglio, della morte secca fosforescente.
Il padrone di casa fece irruzione nel corridoio emettendo grida gutturali: comminava con il passo rigido degli zombi, minacciando a gran voce di portare nel suo antro tenebroso il primo bambino che avesse afferrato. Mentre avanzava, attraverso le occhiaie cave della sua maschera da teschio, fissava i piccoli appassionati di Halloween che, per darsi coraggio si stringevano tremando tra loro.
Quandola Morteallungò la mano per catturare la sua prima vittima i bambini si precipitarono urlanti fuori dall’appartamento, lasciando a terra i dolcetti che avevano arraffato nei cesti della strega; i più piccoli cominciarono a piangere convulsamente abbracciati alle gambe della ragazza che li accompagnava e, per riportarli a casa, fu necessario chiamare i genitori.
Filippo ed Elvira, nel frattempo, si erano sdraiati sul divano del salotto e ridevano, ridevano fino alle lacrime. Volevano davvero divertirsi con la morte, le streghe e i fantasmi: eccoli serviti.
Una madre bussò con rabbia alla loro porta per protestare: era indignata. Spaventare così delle povere creature era un’infamia, una dimostrazione d’insensibilità!
Filippo però trovò subito il modo per tacitarla:
“Ma via, signora! – disse con tono gioviale – i bambini in fondo si sono divertiti… e anche noi! Il bello di Halloween non è forse scherzare con la paura? rida anche lei!”
Quella non fu la sola rappresentazione della serata. Altre due bande di piccoli disturbatori ebbero la malaugurata idea di suonare il campanello di Elvira e Filippo: il diabolico scherzò riuscì in entrambi i casi a meraviglia.
Poi la voce che in quell’appartamento al piano terra c’erano due adulti camuffati da strega e scheletro che si divertivano a spaventare i bambini si sparse per il quartiere e i pochi gruppetti che ancora giravano per le strade si tennero alla larga dalla casa ‘maledetta’.
Elvira e Filippo chiusero la serata brindando con due dita di Vin Santo e sgranocchiando dei biscottini ‘ossa di morto’ davanti ad un centro tavola fatto da una zucca intagliata con una candela che ancora ardeva dentro. Finalmente anche per loro era Halloween.
Dr J. Iccapot