SCRIVO una pagina per me delle più commoventi fra i miei ricordi.

L’anno 19… (chi se ne ricorda? Le date non sono fatte per me. Fra i miei fogliacci potrei ritrovare questa data, ma non ne ho la pazienza). Dunque, l’anno 19… mi pare d’agosto, mi giunse, da Monterotondo Marittimo in provincia di Grosseto dove sono nato, una lettera inviatami da un certo Emanuele Paganini, il quale, a nome di quella popolazione, che voleva conoscermi di persona e farmi un po’ di festa, mi invitava ad andare lassù.

Accettai l’invito e, nel giorno indicatemi, ci andai, partendo da Castiglioncello per la linea maremmana. Alla stazione di Massa Marittima trovai molte persone distinte di quella città ad attendermi per un saluto; e fra questi uno dei fratelli Ravenni di Monterotondo, il quale, per conto del Comune, mi portò in carrozza chiusa fino a quel montano e pittoresco paese. A un mezzo chilometro circa dalle mura, mi aspettava quasi tutta la popolazione del paese accompagnata dalla banda musicale, che, appena scorta la carrozza da lontano, incominciò a suonare. Ero già commosso e intenerito da questa accoglienza; ma ancora non eravamo a nulla. Scesi dalla carrozza e, fra i primi a salutarmi, incontrai il mio vecchio amico d’università, Ettore Socci deputato di quel collegio, invitato lassù per l’occasione. — Hai visto? — mi disse subito. — Da questi segni, lo giudicheresti d’essere nel fondo della Maremma, fra boschi a perdita d’occhio e in mezzo a monti deserti e lontani? Fra poco vedrai quanta gentilezza in queste anime! — Ci prendemmo a braccetto e, preceduti dalla banda e contornati da un folto gruppo di popolo plaudente, entrammo nel paese. Tutto era adornato di festoni verdi e di bandiere e di fiori. E in ogni festone v’era in mezzo, scritto a lettere cubitali, il titolo di qualche mio scritto o di qualche mio libro. Sulla porta d’ingresso al paese v’era scritto: Dolci ricordi.

Ettore Socci guardò me; io guardai lui, e i nostri occhi si incontrarono lustri di commozione. Inoltrandoci dentro il caseggiato s’era coperti da una pioggia di fiori e da un uragano d’applausi e di grida: — Viva Renato Fucini nostro compaesano! Viva Ettore Socci nostro deputato ! — E saluti affettuosi come fra vecchi amici e strette di mano e abbracci frenetici, e nel tempo stesso rispettosi. Emanuele Paganini, il modesto legnaiolo che mi aveva scritto la lettera d’invito, mi baciava con gli occhi e, con gli stessi occhi brillanti d’affetto e di soddisfazione, mi diceva grazie con un sorriso che gli veniva dal cuore.

Girammo tutto il paese sempre in mezzo a tanta festa; poi accennai alla mia stanchezza e, subito, come per incanto, si fece silenzio, e fui condotto in casa dei fratelli Ravenni, dove era tutto preparato per darmi ospitalità. Nessuna esagerazione di preparativi, nessuna esagerazione di accoglienza e di comuni e noiosi e opprimenti complimenti, in quella casa! Forse, capitando nei sobborghi di qualche grossa e civile città, non avrei trovato una accoglienza così onesta, e avrei certamente incontrato qualche cosa che mi avrebbe ricordato la mia gloriosa « Scampagnata ». Quanto sono riconoscente a queste buone e brave persone!

Non mi metto a raccontare cose minute perché sarebbe troppo lunga e difficile impresa : visita al paese, ai soffioni del borace e ai dintorni più pittoreschi. Festa da tutte le parti, e rinfreschi e allegria, e declamazioni nel teatrino e l’inevitabile banchetto, e discorsi, e inni, e apoteosi… Tre giorni di fatica e di stordimento, che mi ridussero a un tale stato di sfinimento fisico e morale che, quando, da ultimo, il sindaco Primo Fiaschi venne a prendermi per condurmi a Massa e mi fece trovare un altro banchetto bello e preparato nella sua città, non ebbi tanto fiato da dire a quei cortesi signori quanto fossi a loro grato e quanto volessi bene a quel paese, dove tanti anni prima ero nato e dove mio padre e mia madre avevano passato tanti giorni della loro giovinezza, contenti e felici.

Dopo tre giorni di Monterotondo e dopo due notti di insonnia assoluta, non ne potevo più.

La sera del primo giorno, appena calato il crepuscolo, tutto il paese fu illuminato e qualche fiammata si accese qua e là sui poggi. Fui condotto a girare per le vie illuminate, dove, con mia dolce sorpresa, vidi una povera casetta più delle altre adorna di bandiere, di fiori e di lumi. Era la casetta dove sessanta anni addietro io ero nato. Fui condotto dentro, su al primo piano, e mi fu mostrata, adorna più che mai, la camera dove mia madre m’aveva dato alla luce. Ero tanto commosso, che, nel guardare quelle travi, quei travicelli, quel letto, quella povera mobilia (che era sempre la stessa), e quel mare che luccicava lontano lontano sotto un raggio di luna, mi correvano per le gote, fitte fitte, le lacrime. Ah, cari amici, che sogni dolcissimi siete riusciti a suscitare in quei momenti solenni nel mio vecchio cuore!

La mattina di poi mi aspettava un’altra commovente sorpresa. Fui condotto a vedere la chiesa, dove il Proposto, in abito talare, mi venne incontro e mi condusse a vedere il fonte nel quale ero stato battezzato. Anche su quello era stata posta una festosa ghirlanda di fiori e d’alloro. Lì accanto era stato posto un leggìo sul quale stava aperto, mostrando la pagina che mi riguardava, il libro delle nascite.

Pochi anni dopo, in compagnia della mia Emma, che volli che anch’essa conoscesse quei luoghi, ci tornai. Avevo accettato l’invito pregando di lasciarmi quieto come se nessuno mi conoscesse. Fui puntualmente obbedito: molti saluti simpatici, molti sguardi sorridenti e punte parole. Bravo Paganini! Grazie.

Tornerò più a Monterotondo? Non credo. I settantratre anni sonati, che incominciano a pesarmi forte sulle spalle, forse non me lo permetteranno.

 

da:  Renato Fucini, Acqua passata: storielle e aneddoti della mia vita (1921)

 

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