VII. I parenti
“Accomodatevi” disse il Commissario, indicando ai genitori della vittima le due sedie davanti alla scrivania. Magliana intanto aveva ceduto la sua poltroncina alla sorella di Stefania, una ragazza mora e robusta, per niente somigliante alla defunta.
“Sono addolorato per la vostra perdita: una figlia nel fiore degli anni… è una disgrazia irreparabile – esordì Sapìa, rispolverando qualche frase del repertorio che utilizzava in occasione di decessi nel parentado – le parole buone servono a poco, lo so… anch’io ho una ragazza di vent’anni e neppure riesco a immaginare come mi sentirei! noi però possiamo ancora fare qualcosa per la povera Stefania: scoprire il suo assassino. Chi ha commesso questo gesto infame deve pagare e io mi impegno ad acciuff… aiutare in tutti i modi il dottor Magliana qui presente nelle indagini… siete in buone mani!”
“Grazie, Commissario – rispose il padre – a noi poco importa sapere il nome di quel delinquente, non riavremo mai la nostra bambina! però per Stefania forse sarà una consolazione, là dove si trova.”
“La Giustizianon è solo una virtù cardinale – esclamò Magliana, memore delle lezioni di Catechismo subite in occasione della recente e tardiva Cresima – è un diritto che noi abbiamo il dovere di garantire anche a chi non c’è più e conta sulla nostra…”
“Volete che riferisca in breve l’accaduto?” chiese Sapìa, cercando di riportare la conversazione sulla Terra.
“No, grazie, preferiamo di no – rispose la sorella – il dottor Magliana ci ha già detto l’essenziale e non vorremmo sapere di più, mi creda.”
“Bene, allora vorrei io qualche informazione da voi” aggiunse Sapìa, rallegrandosi per una volta dell’incontenibile propensione del giovane collega a familiarizzare con le persone coinvolte nelle indagini.
Magliana, per l’occasione, aveva assunto un’espressione ben più intensa della faccia ‘da funerale’ d’ordinanza: sembrava un parente addolorato, non un investigatore. Appoggiato sul davanzale della finestra con una gamba ciondoloni e l’aria di chi vuole solo ascoltare, non dava segni di voler prendere in mano l’interrogatorio. “Ho carta bianca – pensò il Commissario – meglio così, il ciuccio potrebbe anche unirsi al compianto!”
“Ha già qualche sospetto” chiese la madre della vittima, asciugandosi gli occhi.
“Per ora nessuno, purtroppo – rispose Sapìa – deve considerare che le indagini sono ancora in una fase iniziale e, senza testimoni oculari, imboccare la strada giusta non è facile: occorre trovare il movente, qualcosa nella vita della povera Stefania che spieghi questo tragico epilogo.”
“Mia figlia era una brava ragazza, buona e onesta” disse, con un filo di voce, la madre, soffiandosi rumorosamente il naso.
“Non mi fraintenda, signora Losanto. Lungi da me insinuare qualcosa sulla vostra figliola ma il movente è essenziale per le indagini – osservò pacatamente il Commissario – non è un fatto che getta discredito sulla vittima, ci mancherebbe altro! direi che è una chiave, una bussola che indica la via da seguire: se non troviamo una spiegazione dell’accaduto significa che il colpevole è un folle criminale, un maniaco che ha colpito a caso. E allora le probabilità di assicurare il colpevole alla giustizia sarebbero assai scarse.”
“Abbiamo capito e siamo disposti a collaborare – disse il padre – però non sappiamo molto della vita che conduceva Stefania in questa città, non abbiamo idea di chi potesse volerle tanto male. Posso solo garantirle che, a casa, Stefania si è sempre comportata in modo irreprensibile… una brava ragazza, fidanzata da cinque anni con un giovane perbene, un compagno di liceo. Poverino, voleva accompagnarci!”
“E perché non è qui?” domandò il Commissario.
“Sta all’ospedale – rispose la sorella della vittima – alla notizia della disgrazia si è sentito male: un attacco d’asma fortissimo.”
Sapìa ormai era convinto che non avrebbe ricavato nulla da quella conversazione, a parte una profonda tristezza: la ragazza descritta dai parenti sembrava una statua di Moore, liscia e tonda, senza spigoli o angoli oscuri.
“Se a Stefania non sono accaduti fatti insoliti e non avete notato nulla di strano nel suo comportamento, forse è inutile che continui ad importunarvi – tagliò corto – però vorrei scambiare ancora due parole da solo con la signorina…”
“Teresa Losanto.”
“Appunto. Intanto il dottor Magliana vi accompagnerà nella saletta ristoro – aggiunse il Commissario, alzandosi in piedi per stringere la mano dei due affranti genitori – vi porgo di nuovo le mie più sentite condoglianze. E state certi che faremo di tutto per risolvere il caso.”
I coniugi Losanto ringraziarono e, scortati da un mesto Magliana, lasciarono l’ufficio.
Faccia a faccia con Teresa, Sapìa scoprì subito le sue carte:
“Cara signorina, ci troviamo in una situazione difficile. Se non imbocchiamo alla svelta una pista rischiamo di girare in tondo all’infinito. E lei non vuole che il colpevole se ne stia a piede libero mentre la sua povera sorella non c’è più, vero?”
“Certo che no! Ma come posso aiutarla?” chiese la ragazza.
“Semplice: deve dirmi tutto, ma proprio tutto, quello che le ha riferito Stefania negli ultimi mesi. E non tralasci nulla, neanche le cose più scabrose: gravidanze indesiderate, relazioni clandestine, tradimenti, droga e via dicendo. In questo momento io sono come il confessore e le garantisco che non giudico nessuno, tantomeno i morti che non possono difendersi”.
“Non so che dire… mia sorella non era il tipo che faceva certe cose, davvero. Non si è mai messa nei guai e voleva molto bene a Peppino, il suo ragazzo.”
“Allora era del tutto felice e serena, senza pensieri…mai un dispiacere, una lamentela, una lite con qualcuno” domandò, un po’ spazientito, Sapìa; dopo tutto non stava indagando su una santa martirizzata!
“Stefania aveva molte conoscenze ma poche amiche. Con gli estranei legava poco: la sua vera confidente ero io. Sa, tra noi corrono solo quindici mesi, siamo…eravamo coetanee. Non mi avrebbe mai nascosto un segreto importante.”
“Insomma, tutto è sempre andato a meraviglia nella vita di Stefania, a parte il fatto che la morte se l’è portata via a ventitré anni” replicò Sapìa, ormai rassegnato alla monotona litania di Teresa.
“Beh, non proprio tutto. Fino all’anno scorso mia sorella era preoccupata per lo studio e, ultimamente, aveva qualche problema economico, insomma dei piccoli debiti. Vivere al nord costa e la mia famiglia non è ricca – disse Teresa timidamente – mio padre tra qualche mese andrà in pensione e Stefania ci teneva a finire l’università… la liquidazione serve per il mutuo della casa e io sono iscritta a Scienze Infermieristiche. Vivo in famiglia e mi arrangio ma lei dipendeva del tutto dai miei e voleva cercarsi un lavoro.”
“Debiti contratti con chi?” chiese Sapìa incuriosito. Finalmente il monolite di virtù mostrava una piccola crepa!
“Non lo so, forse le ragazze dell’appartamento oppure Peppino, il fidanzato. Anch’io, tre mesi fa, le ho prestato cinquecento euro – rispose Teresa – ma Stefania non buttava via i quattrini, doveva comprare i libri, pagare l’affitto e le tasse: ci vuole uno stipendio per mantenersi fuori casa! ultimamente per fortuna le cose si erano sbloccate: mia sorella doveva discutere la tesi tra qualche settimana.”
“Già, ho visto che aveva superato tutti gli esami.”
“Ha trovato il suo libretto? Quando è scesa a Natale volevo vedere il trenta che aveva preso a latino, così, per curiosità. Sa, io colleziono venti, per me l’importante è finire alla svelta. Però Stefania mi disse di averlo perso, insomma non lo trovava più.”
“Il libretto in effetti è scomparso. Io ho solo dato un’occhiata al Piano di Studi” precisò Sapìa.
“Peccato. Se lo recupera vorrei averlo, come ricordo” disse Teresa.
“A proposito, potrebbe descrivermi la borsetta di sua sorella? non era accanto al corpo.”
“Certo, l’ho comprata io. Un regalo di Natale. A Stefania piacevano le sacche: era floscia, nera e con borchie dorate. Non tanto grande, perché lei portava solo l’essenziale.”
“Una borsetta che si potrebbe nascondere in uno zaino o in una valigetta da computer?”
“Sì.”
“E mi dica, sua sorella, per caso, aveva l’abitudine di tenere nel portafoglio molto denaro?”
“Scherza, dottore! era sempre in bolletta: quello che mio padre versava ogni mese sul conto corrente della Banca Commerciale non le bastava mai – rispose Teresa – davvero crede che qualcuno l’abbia aggredita per derubarla?”
“No, francamente una rapina con omicidio in pieno giorno all’interno di una sede universitaria mi sembra improbabile – osservò il Commissario – ma devo valutare tutte le piste.”
“Pensandoci bene – aggiunse Teresa – tempo fa i nonni le avevano dato tremila euro in contanti come regalo di laurea. A Stefania servivano in anticipo per fare le ultime spese, comprare un vestito da cerimonia, pagare la stampa della tesi, offrire una festa d’addio agli amici. Insomma, le solite cose che bisogna mettere in conto in questi casi.”
“Allora controllerò se aveva depositato in banca il denaro” disse Sapìa.
La pista dei debiti sembrava una novità interessante, un tempo gli strozzini non avrebbero mai accettato come cliente una studentessa spiantata ma ora chi sa… doveva chiedere lumi al sempre aggiornato.
Il Commissariò congedò con gentilezza Teresa: la ragazza sembrava sincera ma forse conosceva solo in parte i segreti della sorella.
Rimasto solo vuotò di nuovo la scatola di Morganti sul piano della scrivania con l’intenzione di dare un’altra occhiata Piano di Studi ma subito afferrò il primo foglio della risma: era un estratto conto.
“Guarda il caso! Sul momento non l’ho notato – si rimproverò – già, l’epoca dei vaglia di papà è tramontata e tutti gli studenti fuorisede sono correntisti! certo tremila euro rappresentano una bella sommetta per chiunque, conviene depositarli subito… a meno che il conto non sia già in rosso.”
I numeri parlavano chiaro al riguardo: il piatto piangeva… sotto di un bel po’, nessun versamento recente e carta di credito sospesa. La povera Stefania era al verde.
“Dove saranno finiti il soldi dei nonni e della sorella? – si chiese perplesso il Commissario. La tesi ancora non era pronta per la copisteria, si capiva dagli appunti, e per il rinfresco delle amiche cento euro bastavano e avanzavano. D’altra parte la vittima non viveva nel lusso, non consumava droghe e non si trovava nei guai…il medico legale lo escludeva.
“Anche la storia del libretto perduto – pensò Sapìa – sembra una favoletta, come quella di Nino Longo.”
Il nome dell’antico collega di studi era rimasto pirografato nella mente del Commissario a causa di un’ingegnosa truffa architettata dal giovanotto a danno dei familiari. Per far credere che la sua permanenza all’Università fosse proficua, aveva denunciato lo smarrimento del libretto: ottenuto il duplicato sosteneva gli esami con il nuovo documento e mostrava l’originale, opportunamente fiorito di fasulli trenta, agli ingenui genitori che, al paese, mangiavano cipolle.
“Un piccolo lestofante promettente! Chi sa che fine avrà fatto? – si chiese Sapìa – giudice, prefetto, questore, generale della Finanza… avvocato no, troppo ovvio!”
Il Commissario tornò a casa con Nino Longo che ancora gli girava per la testa e un pensiero fisso, assurdo e molesto. Si rendeva conto che era un’idea balzana ma, per liberarsi da quel genere di ossessioni, doveva assicurarsi che i suoi timori, oltre che irrazionali, fossero assolutamente infondati.
Lo studio era un argomento che raramente affrontava con i figli. Aveva sopportato a malincuore il rude basto pedagogico del padre e non intendeva imporre ad altri gli stessi sacrifici. Lasciava ad Annalisa, Goffredo e Paolo la libertà di rovinarsi con le proprie mani… s’intende entro i limiti del buon senso.
Per fortuna la primogenita rigava dritta da sola, i due maschi invece collezionavano allegramente insufficienze e, di tanto in tanto, la signora Edda invocava il guanto di ferro e le cinghiate: “devi costringere i ragazzi a studiare, per il loro bene” diceva preoccupata al marito ma Sapìa, irremovibile, replicava: “Il loro bene? con i dottori e gli ingegneri a spasso! lo sai qual è il mestiere dell’avvenire? allevatore di capre!”
Insomma il Commissario detestava parlare di argomenti scolastici, non di meno aveva bisogno di scacciare dalla mente un pensiero odioso, un tarlo che gli rodeva il cervello.
Così, dopo cena, entrò nella camera di Annalisa e chiese di vedere il libretto:
“Perché?” domandò la figlia, sorpresa da quell’insolito interesse per i suoi studi.
“Ti sembra una sciocchezza, lo so, ma vorrei sapere se è ancora fatto come quelli di una volta. Il libretto della ragazza assassinata è sparito e, quando si cerca una cosa, bisogna sapere che aspetto ha, non ti pare?.”
Annalisa sollevò le ciglia perplessa, poi aprì la borsa e consegnò tranquillamente il libretto al padre. Non temeva di mostrare i suoi voti: aveva regolarmente superato il primo anno e con una buona media.
“Non dovresti portarlo in borsa, potrebbero scipparti” borbottò contrariato Sapìa.
“Detto da un poliziotto è davvero incoraggiante – replicò ironica Annalisa – comunque, se il libretto dovesse smaterializzarsi all’improvviso, evaporare per un’esplosione atomica o essere rubato dalla CIA, posso sempre avere un duplicato. Gli esami vengono trascritti su un registro, non te lo ricordi?.”
“Certo che me lo ricordo. Il professore deve compilare il verbale…su un apposito registro” rispose, quasi sovrappensiero, Sapìa: stava osservando i voti di Annalisa. Doveva ammettere che erano più che decorosi.
“Poi vengono inseriti nel computer – proseguì la figlia – così la situazione dello studente è sempre aggiornata.”
“Comunque, se perdi il libretto, avvertimi: penso io a tutto, non ti preoccupare” disse il Commissario, uscendo dalla stanza un po’ imbarazzato.
Annalisa rimase immobile in mezzo alla stanza, stupita dall’improvvisa curiosità del padre. Il caso della studentessa uccisa probabilmente lo coinvolgeva più del solito, dopo tutto era un genitore, ma quel genere di informazioni poteva ottenerle da chiunque. Forse le sue domande avevano un altro motivo, inconfessabile.
“Il babbo vuole iscriversi di nuovo all’Università?” chiese Annalisa alla madre, entrando in cucina. La signora Edda, intenta a pulire i fornelli, alzò la testa senza voltarsi. La paglietta che stava usando per sfregare le incrostazioni le sfuggì di mano. Per un attimo rimase esterrefatta: era la domanda più incredibile che avesse mai sentito in vita sua.
Poi si voltò e, sorridendo, rispose:
“Cara Annalisa, se tuo padre scoprisse un giorno chi ha inventato l’Università, credo che rischierebbe di finire all’ergastolo per omicidio.”
“Beh, non è che me lo sia sognato: il babbo mi ha fatto un discorso strano, sembrava che volesse sapere com’è organizzata oggi l’Università” disse la figlia.
“Stai tranquilla, se ti ha chiesto qualcosa ha bisogno di informazioni per la sua indagine – replicò la madre – che idea pazzesca: tuo padre che torna all’Università!”
Rosanna Bogo