Il delitto del barbone
Seconda parte
“Venga da me, Morganti. Ho bisogno di lei” disse il Commissario al telefono.
L’ispettore, all’altro capo del filo, rimase in silenzio. Tra loro notoriamente non correva buon sangue ed convenevoli erano superflui. Dopo un minuto si trovava già nell’ufficio del suo superiore.
“Ha sentito del barbone?”
“Sì, un caso difficile…probabilmente finirà archiviato. Tanto a chi importa trovare l’assassino di un mendicante, un drogato o una prostituta? La gente perbene pensa che finire ammazzati faccia parte dei rischi del loro mestiere”.
“Le garantisco che a me importa, ma non per le ragioni che crede lei. Gli uomini, guardati di fino, sono davvero tutti uguali: nessuno vale un centesimo. E gli ultimi, i deboli, i poveri, i malati non sono migliori dei primi. Ma questa è solo la mia opinione e, ovviamente, l’universo mondo si considera ab aeternum buono e meritevole. Però sono convinto che, quando si fa un lavoro, quale che sia, si deve fare bene ed anche lei la pensa così. Non è vero? Noi siamo due astuti gatti ma potremmo anche appartenere alla categoria dei topi e, in questo caso, ora saremmo qui a studiare il modo migliore per arrivare alla forma di cacio. Ci teniamo a raggiungere il risultato e diamo sempre il massimo perché siamo perfezionisti.”
“Lei mi conosce, Commissario, non sono il tipo che si tira indietro o guarda l’orologio e il calendario – replicò Morganti – quando c’è carne al fuoco, secondo me, chi lavora nell’interesse di tutti deve essere disposto a sacrificarsi. Però, quanto a fare il delinquente o, come dice lei, il topo di fogna, mi dispiace ma la penso in modo diverso: a vent’anni avrei potuto diventare uno spacciatore, un teppista o un piccolo delinquente come tanti ragazzi del mio quartiere, dopotutto era una strada in discesa, invece ho deciso di arrampicarmi e servire lo Stato perché credevo, e credo ancora, che si debba difendere la legge e stare da questa parte della barricata.”
“Quanta retorica, ispettore! – osservò Sapìa con un ironico sorrisetto – lei è proprio un ingenuo sognatore…le sembra che nel nostro campicello abbondino davvero gli onesti e i giusti? sono rarità anche tra i fedeli servitori dello Stato, anzi, in tutto il genere umano se ne trovano ben pochi. Ad esempio io non ritengo affatto di appartenere alla schiera degli eletti: mi trovo qui perché ho estratto a sorte una famiglia, un’educazione, un carattere che mi hanno fatto diventare quello che sono. Se mio padre, invece di insegnare Matematica in un liceo di provincia, avesse fatto il mafioso ora sarei don Italo Sapìa. Quando due eserciti si fronteggiano bisogna per forza schierarsi: io seguo la nostra bandiera, mi batto con le unghie e con i denti, ma so che il confine tra le trincee è labile. Anzi, noi abbiamo già perso.”
“Perso cosa?” domandò Morganti, confuso dalle elucubrazioni del commissario.
“Perso la guerra, s’intende! – esclamò Sapìa – ammesso che noi due si militi davvero nelle candide schiere del Bene. Il male, la distruzione, la morte, alla fine vincono sempre: la materia si evolve soccombendo, è una legge inumana ma naturale.”
“I cattivi però non la passano sempre liscia. Forse i ladruncoli ci sfuggono, ma gli assassini li prendiamo quasi tutti” obiettò l’ispettore.
“Già, e mentre noi acchiappiamo un assassino, in Africa cento delinquenti armati di machete entrano in un villaggio e fanno strage di inermi, certi che i loro crimini rimarranno impuniti. Un buon cattolico come lei dovrebbe sapere che il diavolo è il re del Mondo: come può dubitare che la sua bilancia penda dalla parte del piatto malvagio?”
“Nessuno può lottare contro il Male senza credere nella superiorità del Bene” disse convinto l’ispettore.
“Ma via, Morganti, che vuol dire credere nel Bene? Al massimo lei può affermare di credere in Dio, magari anche sperare di ricevere un brutto giorno la corona del martirio e volare in cielo tra i cori angelici. Ma il Bene è come la Verità: ‘che vi sia ognun lo dice dove sia nessun lo sa!”
“Questo, questo è…relativismo, sì proprio relativismo morale” esclamò l’ispettore, annaspando alla ricerca di un argomento valido per difendere la sua posizione, senza dubbio giusta ma debole.
“Lo confesso, sono un commissario nichilista! – disse con tono sarcastico Sapìa – e, ora che abbiamo confrontato le rispettive convinzioni e scoperto che sono inconciliabili, mettiamoci al lavoro: per acchiappare il nostro topo ci vuole una strategia. Direi che al solito possiamo partire dall’identità della vittima: luogo di nascita, studi, professione, famiglia, parenti, amici, città di provenienza, fedina penale. Dopo avere scandagliato il passato remoto del nostro uomo, esamineremo a fondo il suo passato prossimo fino ad arrivare all’ultimo respiro. Voglio notizie sulle persone e i luoghi che ha frequentato negli ultimi mesi, sugli spostamenti nelle ore immediatamente precedenti il delitto e su tutte le situazioni degne di nota in cui si è trovato: ricoveri ospedalieri, risse, retate e quant’altro. S’intende che dobbiamo prendere in considerazione anche aggressioni subite da altri barboni e fatti insoliti accaduti di recente nella zona della Stazione. Infine, messi insieme tutti i dati, scarteremo uno ad uno i moventi improbabili. Se siamo fortunati, dopo un po’, avremo in mano solo una manciata di carte: a quel punto non ci resterà che buttare gli scartini e tenere i carichi, scegliendo alla fine il colpevole più convincente.”
“E se fosse un delitto gratuito, senza movente?” chiese Morganti
“Il concetto di ars gratia artis può spiegare la creatività – rispose il commissario guardando fuori dalla finestra con aria annoiata – non l’omicidio. Ogni azione umana ordinaria, compreso uccidere, è l’esecuzione di un ordine proveniente dal cervello. Ci sono moventi che possono sembrare irragionevoli ma, da questo a sostenere che esistano delitti senza causa, ce ne corre. L’assassinio non è una delle belle arti, mi creda! Nella sua ipotesi l’uccisore del barbone si comporta più o meno come un cecchino che spara sulla folla o un maniaco che ammazza la prima prostituta che incontra: l’azione, motivata da un impulso perverso, colpisce un individuo a caso. Come vede, quello che manca non è il movente, ma il legame tra vittima e carnefice. In questo caso conoscere la ragione per cui l’omicidio è stato commesso non ci permette di risalire immediatamente al colpevole, ma può orientare le nostre ricerche, ad esempio su responsabili di delitti simili.”
“Allora andiamo pure a caccia del movente – disse Morganti – ma non mi stupirei se l’assassino fosse un vagabondo che odia i barboni o un malato di mente desideroso di vendicare un torto immaginario.”
“Vedremo chi di noi due ha ragione – disse Sapìa alzandosi in piedi. Era il suo modo di comunicare ai sottoposti che la conversazione era finita – Intanto avviamo l’indagine. Dia un’occhiata alla relazione di Magliana, tanto per cominciare, ma la riporti subito.”
“Ci può contare, preferisco lavorare sul campo. Se la vittima non è uno straniero, con un po’ di fortuna, in giornata dovrei riuscire a scoprire come si chiama. Le telefono dopo cena per fare il punto delle indagini.”
L’ispettore uscì senza salutare dall’ufficio di Sapìa. Appena fuori dalla porta tirò un sospiro di sollievo. Discutere con il Commissario lo metteva sempre a disagio: era un cinico disfattista senza cuore, in altri tempi si sarebbe trovato a proprio agio nella Gestapo o nel KGB.
Il commissario, seduto davanti alla scrivania, rimase per qualche minuto immobile e pensieroso. Morganti, con i suoi discorsi da baciapile, gli faceva ribollire il sangue: senza dubbio il giovanotto aveva entusiasmo, tenacia, voglia di fare e non si scoraggiava all’idea che i frigoriferi degli obitori fossero pieni di sconosciuti autoctoni, ma purtroppo era anche un’anima bella convinta di partecipare ad una crociata che si sarebbe immancabilmente conclusa con il trionfo del Bene.
Per fortuna, si disse Sapìa, la macchina delle indagini era già in moto: da quel momento in poi avrebbero parlato solo delle indagini sulla morte del barbone sgozzato.
Il commissario Sapìa tornò a casa verso le otto. Al lavoro aveva completato alcune vecchie pratiche e preparato i primi post-it del caso del barbone. Per il momento gli indizi erano scarsi ma, in serata, Morganti gli avrebbe di certo riferito qualche novità e, l’indomani, la Scientifica e l’anatomo-patologo dovevano consegnare la prima tranche di risultati.
Sapìa però non si aspettava di ricevere un aiuto concreto dai laboratori o dall’obitorio: le cause della morte erano evidenti, l’arma introvabile e banale, le tracce biologiche quasi di sicuro assenti. Sorrise ripensando ad un caso che aveva risolto in poche ore perché lo sprovveduto assassino aveva perso il portafoglio nell’auto della vittima: altro che DNA!
Giunto sotto casa, Sapìa parcheggiò l’auto nell’unico spazio rimasto: a cavallo delle strisce. Salì le scale senza fretta e infilò la chiave nella toppa. La serratura era chiusa con un solo scatto.
“Edda, quante volte devo dirti di non lasciare la porta aperta” esclamò irritato.
La moglie accorse dalla cucina, scarmigliata più o meno come al mattino, con un mestolo in mano e il grembiule legato in vita.
“Che succede, Italo?” chiese la donna.
“Lo scatto non basta, te l’ho detto tante volte. Devi dare tre mandate, altrimenti che ci sta a fare la serratura! Ti immagini se entrasse in casa un ladro? Vedo già i titoli sulla cronaca locale: famiglia di un commissario derubato, chi custodirà i custodi?”
“Annalisa è rientrata per ultima, dillo a lei” rispose la moglie, tornando ai fornelli.
Sapìa aveva un debole per la figlia primogenita e non intendeva rimproverarla per una sciocchezza del genere. Così lasciò perdere la questione della sicurezza, fino a pochi secondi prima di vitale importanza per il buon andamento della casa, e si concentrò sulla cena:
“E’ già pronto o faccio in tempo a mettermi la tuta?” domandò, togliendosi nel corridoio le scarpe leggermente maleodoranti. “Dopo dodici ore di lavoro vorrei vedere il contrario, siamo o non siamo piedipiatti!” pensò trattenendo un moto di fastidio.
“Tra dieci minuti scodello la minestra, ma si deve raffreddare un po’…calcola un quarto d’ora al massimo” rispose Edda.
Dopo quattordici minuti erano tutti seduti intorno al tavolo rettangolare del tinello: Edda e Italo a capotavola, i due ragazzi a destra ed Annalisa a sinistra. Per una questione di simmetria il commissario avrebbe voluto un altro figlio, possibilmente di sesso femminile, ma Edda aveva minacciato di comprare un tavolo rotondo.
“Com’è la minestra” chiese la moglie.
“Se non dico niente vuol dire che va bene, lo sai” rispose il marito.
“Ne voglio ancora” disse Paolino
“Vorrei ancora un po’ di minestra, per favore. Ripeti!” lo rimbeccò la madre.
Paolino era testardo come il padre: rimase in silenzio e rinunciò al bis.
In casa Sapìa, durante il pranzo e la cena, il televisore rimaneva spento e i commensali, impegnati a masticare, parlavano poco. Il silenzio sembrava gravido di tensioni ma, in realtà il clima familiare, in quei momenti di convivialità, era come sempre mediamente litigioso.
Appena terminata la cena Italo si alzò e raggiunse il salotto. Seduto sul divano, in attesa che la moglie gli portasse il caffè, si sintonizzò su un telegiornale nazionale e aprì il quotidiano alla pagina di cronaca locale.
Quasi sempre trascorreva da solo la serata: i figli tornavano nelle loro stanze per finire i compiti o, più probabilmente, per giocare al computer e fare lunghe crociere in rete; la moglie guardava la televisione in camera da letto.
Verso le nove il commissario prendeva la sua ultima tazzina di caffè, la sesta della giornata. Edda ogni tanto tentava di convincere il marito a moderare il consumo di quell’eccitante bevanda che, a suo avviso, contribuiva a rendere irritabili i suoi nervi ma, per il commissario, il nero nettare era quasi una droga. E poi la sera non soffriva d’insonne e neppure si sentiva più nervoso del solito: ormai era assuefatto.
“Telefono, papi! Morganti per te” disse Annalisa entrando nel salotto con in mano il cordless.
Sapìa si era dimenticato del barbone e dell’Ispettore: stava leggendo un lungo articolo di nera su una rapina messa a segno il giorno prima in città, il bottino non sembrava ingente ma una guardia giurata era finita in rianimazione.
“Sono Sapìa… allora, ha scoperto qualcosa di interessante, Ispettore?” chiese incuriosito il Commissario.
“Non molto – rispose Morganti – ma intanto le posso dare le generalità e i precedenti della vittima, le sue impronte erano schedate: dunque… si chiamava Edo Rava, nato a Frascati nel 1950, condannato a tre anni per truffa nel 2003, interamente scontati. Era un ragioniere, titolare di una subagenzia assicurativa, e aveva tentato di svignarsela con quasi un milione di euro, rate di clienti mai versate alla Società La Fenice. Come delinquente non ci sapeva fare: l’hanno rintracciato quasi subito seguendo la sua amante, una giovane ballerina polacca. Con la moglie era in comunione di beni e la donna, dopo aver perso casa, macchina e conto in banca, lo ha lasciato. Anche per via della ballerina, s’intende. Da allora la donna si è disinteressata della sorte del marito. Dopo la scarcerazione il Rava ha iniziato a vivere come un vagabondo, però non si è più messo nei guai con la giustizia: chiedeva l’elemosina, mangiava alla Caritas, a volte andava al dormitorio pubblico, le solite cose insomma.”
“Figli?” chiese il commissario.
“No, niente figli né genitori o fratelli. Un uomo solo al mondo. Anche con gli altri barboni pare non legasse molto: me l’ha riferito un agente della Polfer mio amico.”
“Beh, qualche persona con cui si confidava ci deve pur essere, magari un operatore della Caritas un prete, un ex compagno di cella…vedremo in seguito. Intanto domani porti in ufficio quel Biondi, il testimone; voglio interrogarlo. E cominci a cercare i senzatetto presenti nel sottopassaggio la sera del delitto. Ci vediamo domani, Morganti.”
“Buonanotte, Commissario” rispose l’ispettore. Quando stavano collaborando ad un’indagine si trattavano con educata indifferenza.
Sapìa prese subito qualche appunto: soffriva di vuoti di memoria e non voleva correre il rischio di dimenticare un particolare importante. Sullo schermo intanto passavano le immagini di un film giallo, un episodio inedito di una nota serie, ma il commissario non seguiva quasi mai con attenzione le trasmissioni.
“Forse sono un po’ stanco – disse tra sé – magari dovrei fare una cura di fosforo, ma quello che mi servirebbe davvero è una terapia antidepressiva, però potrebbero togliermi la pistola…comunque sempre meglio avere il morale sotto i tacchi che essere rimbambito dall’Alzheimer.”
Il padre del commissario, morto l’anno precedente, aveva sofferto di demenza senile per più di dieci anni e il figlio aveva giurato a se stesso che si sarebbe tirato una revolverata alla tempia se, malauguratamente, si fosse trovato nella stessa situazione. Tanto aveva già maturato i contributi per la pensione reversibile e in banca lasciava abbastanza per tirare avanti la famiglia qualche anno. Paolino però aveva solo dodici anni, era ancora troppo piccolo per rimanere orfano. Forse come padre aveva qualche pecca: non giocava con lui, non lo accompagnava al campetto di calcio, non era abbastanza allegro ed amichevole, ma un genitore assente è pur sempre meglio di niente!
A differenza di Edo Rava, lui aveva delle responsabilità familiari: una madre anziana, una sorella zitella, due suoceri non più giovani, una cognata mal sposata, tre figli, quattro nipoti. Per non parlare della moglie, casalinga frustrata sempre in vena di recriminazioni. Quando a Natale si riunivano erano di solito in bilico tra i tredici e i quattordici: per prudenza prevedevano almeno quindici commensali e, in caso di scarsità di parenti, invitavano un’anziana vicina che viveva sola e un lontano cugino scapolo.
“A chi può giovare la morte di un disperato senza nessuno al mondo, un solitario che non frequenta delinquenti, possiede solo qualche euro e pensa ai fatti propri? – si domandò il Commissario – Forse ha ragione Morganti: l’assassino del barbone è uno squilibrato che ha ammazzato il primo disgraziato a portata di coltello. E allora, senza un testimone oculare che fornisca un identikit, posso scordarmi di risolvere il caso.”
Rosanna Bogo
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