Il delitto del barbone
Prima parte
Il commissario Sapìa suonò il campanello. Non un rumore, non un raggio di luce filtrava dall’interno: l’appartamento era immerso nel silenzio e nell’oscurità. Attese qualche secondo tamburellando con le dita sul muro, poi suonò di nuovo, più energicamente. Ormai stava per perdere la pazienza:
“Allora, devo buttare giù la porta!” esclamò con tono perentorio ma senza gridare. Alle sette del mattino non era il caso di mettere in allarme l’intero condominio.
“Vengo, vengo! Un attimo!” rispose una voce femminile.
Poco dopo l’anta si aprì: sulla soglia apparve una donna di mezza età, scarmigliata e in pigiama; socchiudendo gli occhi per evitare di essere abbagliata dal neon del corridoio, guardò il commissario con espressione infastidita.
“Ah, sei tu” disse la donna sbadigliando.
“Aspettavi il principe azzurro?” replicò Sapìa, entrando sgarbatamente in casa sua.
“Hai dimenticato le chiavi?”
“Che acume! si vede che hai sposato un poliziotto!” osservò ironicamente il commissario prendendo il mazzo di chiavi che, la sera prima, aveva lasciato nel vuota-tasche sul comò della camera da letto.
“Ti faccio un caffè, Italo?” domandò la moglie. Ormai era del tutto sveglia, tanto valeva mostrarsi conciliante.
“No, è tardi – rispose seccamente il marito – certo, mezz’ora fa, avrei detto sì, ma non posso pretendere che tu ti alzi per prepararmi la colazione. Devi riposare.”
“Eh, già…con tre figli da crescere e un marito da accudire sto sempre a pittarmi le unghie in poltrona mentre tu, poverino, all’alba vai a guadagnare la pagnotta!” disse la signora Sapìa con tono sarcastico.
Il commissario non raccolse la provocazione e tornò nell’ingresso. Aveva fretta ma, prima di uscire, trovò il tempo per tirare un calcio alla porta della camera dove dormivano i due figli maschi, Goffredo e Paolino:
“Giù dalla branda, marmotte, sono le sette! – gridò – A scuola, raus! E mettete la sveglia quando andate a letto.”
“Non fare baccano, Italo, poi i vicini vengono da me a protestare!” implorò la moglie.
“Sai quanto me ne frega dei tuoi vicini! E’ incredibile, sembra che io sia l’unica persona in tutto il palazzo che deve alzarsi presto per andare a lavorare” esclamò il commissario, tirandosi dietro la porta senza troppo garbo; scese le scale con passo veloce e salì in macchina. Mentre stava per girare la chiave dell’accensione il telefonino cominciò a suonare l’Inno di Mameli:
“Sono Edda…il portafoglio.”
Sapìa chiuse la comunicazione senza neppure rispondere alla moglie e, automaticamente, portò la mano al taschino interno della giacca: in effetti, era vuoto.
“Porco mondo! – mormorò sconsolato – altro che distrazione…questa è vecchiaia galoppante. E meno male che lascio la pistola in ufficio!”.
“Finalmente sei arrivato – esclamò il vice commissario Magliana, incrociando Sapìa nel corridoio della Questura – non vedo l’ora di andare a dormire: stanotte mi hanno buttato giù dal letto alle due.”
“Ti dispiace se ci diamo del lei, Magliana? – replicò il commissario, sorvolando sul motivo del ritardo – così non abbiamo la tentazione di prenderci a pacche sulle spalle e mandarci ogni cinque minuti a quel paese”.
Il commissario Sapìa detestava la moderna propensione a familiarizzare tra semplici conoscenti e, sul posto di lavoro, cercava sempre di tenere a distanza i colleghi: aveva notato che, stando gomito a gomito tutto il giorno, la confidenza facilmente diventava eccessiva e spesso sconfinavano nella mancanza di rispetto.
“Come vuole, dottore – borbottò Magliana, da tempo rassegnato alle stranezze di Sapìa – per me è lo stesso…a proposito, questa notte hanno accoltellato un clochard vicino alla stazione.”
“Un barbone?”
“E io che ho detto?”
“Un senza tetto, un senza fissa dimora, un vagabondo, uno spostato, un derelitto, un povero cristo… l’italiano ha tante parole, perché non usarle! O, per caso, il suo clochard era claudicante?”
“Non lo so – rispose Magliana un po’ interdetto – quando l’ho visto stava disteso a terra, morto.”
“E’ morto?”
“Sì, certo che è morto, e quasi subito – rispose Magliana, prendendo cappotto e sciarpa da un attaccapanni nella stanza che divideva con Sapìa – se ti tagliano la gola campi poco. Nel fascicolo sulla sua scrivania troverà il rapporto.”
“Dunque non è stato accoltellato ma sgozzato! – obiettò Sapìa con tono pedante – Lo vede, la sua improprietà di linguaggio mi fa perdere tempo e il mio tempo dovrebbe essere dedicato alle indagini, non alla maieutica dei vice commissari.”
Quando era di malumore, in pratica quasi ogni giorno dell’anno, Sapìa si divertiva ad ammorbare il prossimo con frecciatine acide e giochi di parole; o almeno così credeva perché, in realtà, ben pochi comprendevano il senso delle allusioni e delle espressioni peregrine con cui infiorava i suoi discorsi: non a caso in Questura l’avevano soprannominato “la Sfinge”.
Magliana, ragioniere laureato in legge senza infamia né lode, apparteneva alla schiera dei colleghi immuni al sarcasmo criptico ed erudito di Sapìa: quando non afferrava il senso delle sue battute, il che accadeva spesso, alzava le spalle e lasciava perdere. Aveva subito immaginato che la faccenda del vagabondo zoppicante nascondesse uno dei soliti incomprensibili calembour del commissario e decise che non valeva la pena di approfondire l’argomento o chiedere cosa significasse ‘maieutica’. Così troncò la conversazione e, salutando freddamente, uscì. Dopo una notte trascorsa in strada con un cadavere l’unico pensiero che occupava la sua mente era raggiungere al più presto un letto.
Rimasto solo il commissario chiuse la porta e si mise subito all’opera: detestava annoiarsi e, per abitudine, leggeva il giornale la sera, dopo cena. Dopo aver sfogliato distrattamente il fascicolo di Magliana, compose il numero interno della Scientifica.
“Sono Sapìa. Novità sul delitto di stanotte?” chiese bruscamente. La settimana passata aveva discusso con i tecnici e ancora la rabbia non gli era sbollita, sebbene probabilmente fosse in torto.
“Hai detto bene, di stanotte – rispose infastidito il responsabile del laboratorio – e se è accaduto stanotte significa che questa mattina stiamo ancora a caro babbo. Credi di essere a CSI Las Vegas, premi un pulsante e Match! Ecco il nome del colpevole?”.
“Insomma, vuoi dire che i risultati degli esami non sono pronti!” esclamò il commissario.
“Sei sordo, Sapìa? Enne enne, enne enne. E vai a pren …”
Il Commissario mise giù di colpo, reprimendo a fatica l’impulso di spaccare la cornetta. Contò fino a dieci e iniziò a leggere con attenzione le tre paginette scritte da Magliana.
Ormai il cadavere si trovava all’obitorio e la scena del crimine, un angolo del sottopassaggio vicino alla stazione, in quel momento veniva calpestata da orde di pendolari: in attesa di conoscere le conclusioni della Scientifica ed iniziare le indagini, tanto valeva esaminare gli indizi raccolti on the spot da Magliana, gli unici disponibili al momento.
“A parte i tre errori di grammatica per pagina, direi che è proprio una brutta gatta da pelare – pensò Sapìa, dopo aver esaminato la scarna relazione del Vice commissario – una vittima fantasma e troppi candidati al ruolo di assassino…il colpevole potrebbe essere un barbone qualsiasi, magari ubriaco, o un piccolo delinquente con un conto in sospeso, magari uno dei tanti balordi che girano per la città di notte: skinhead, psicotici allucinati, drogati in crisi d’astinenza, teppisti annoiati a caccia di emozioni. E il modus operandi non aiuta. Un colpo di pistola a volte porta all’omicida come una striscia di briciole di pane, ma con una ferita da taglio non si va lontano: un coltello a disposizione ce l’hanno tutti, anche le casalinghe.”
Il barbone, secondo il medico dell’ambulanza che Magliana aveva trovato già sul posto, doveva avere più o meno sessant’anni ed era deceduto per dissanguamento: una morte rapida, sopravvenuta in pochi secondi. Si chiamava Edo, per molti zio Ed, però nessuno conosceva il cognome. E non aveva documenti.
“Un paria della modernità – disse tra sé Sapìa – invisibile in vita e di nuovo elevato al rango di essere umano solo perché vittima di un ignoto assassino. Ma, tutto sommato, neanche ora la sua esistenza ha una qualche importanza: lo scopo delle mie indagini è identificare il membro della società che, uccidendolo, ha violato la regola fondamentale della convivenza. Se fosse morto di freddo me la caverei con due righe.”
Il commissario guardò le foto che Magliano aveva scattato con il telefonino e stampato al computer: il vicecommissario era un maniaco della fotografia digitale, in mancanza di altro avrebbe immortalato persino il proprio cadavere, ma quando la scientifica tardava ad arrivare le sue fisime si rivelavano utili.
Un primo piano ravvicinato mostrava il volto rugoso del morto, deformato da una smorfia di sofferenza; gli occhi, aperti, non esprimevano né dolore né paura.
“Niente di strano – pensò Sapìa – i morti ci guardano sempre con indifferenza. Sembrano spettatori annoiati in attesa di una rappresentazione che tarda ad iniziare. E, purtroppo per noi, non comincerà mai.” Il commissario era un ateo scontento: considerava l’incredulità una lente che ingrandiva inutilmente gli aspetti negativi della realtà, mentre la fede, a chi aveva la fortuna di possederla, regalava l’illusione di vivere in un mondo dotato di senso.
In altre immagini Magliana aveva immortalato particolari del cadavere e oggetti presenti sulla scena del delitto: alcune banconote, forse una trentina di euro, uscite dai calzini, accanto ai piedi, due coperte e un sacco a pelo zuppi di sangue, cartoni qua e là, uno zaino arancione sdrucito pieno all’inverosimile appoggiato al muro, omnia mea mecum porto. Evidentemente, pensò Sapìa, l’uomo aveva tentato di divincolarsi prima di soccombere e forse il trambusto non era passato inosservato.
Mentre osservava le foto, ruotandole di 90 o 180 gradi, gli venne in mente che un detective americano avrebbe definito il morto ‘maschio caucasico di corporatura media’. In effetti, anche lui, da qualche anno, quando aveva a che fare professionalmente con un individuo, vivo o no, in primis si chiedeva di che ‘razza’ fosse. Il termine gli sembrava improprio, a meno di non trovarsi ad un’esposizione cinofila di fronte a golden retriver, mastini, bordar collie, o pastori bergamaschi, però il lemma ‘etnia’ non aveva, a suo parere, altrettanto potere di sintesi. Quanto all’aggettivo ‘extracomunitario’, definiva anche un abitante di New York e, se proprio si voleva essere rispettosi del prossimo ovvero politicamente corretti, conveniva usare espressioni meno perentorie, ad esempio ‘non comunitario’ o ‘di diversa cittadinanza’.
“Devo ammetterlo, ormai la cosa che mi salta subito agli occhi è il colore della pelle – osservò tra sé Sapìa – e, probabilmente, sono un razzista o, almeno, uno xenofobo perché, quando ho l’impressione di avere di fronte un ‘compaesano’, mi sento sollevato e a casa come se fossi appena sbarcato a Fiumicino: ‘moglie, buoi e cadaveri dei paesi tuoi’… Comunque il morto sembra proprio un rottame senza più dignità, forse è un ex carcerato o un malato psichiatrico a cui abbiamo generosamente regalato la libertà…di morire di stenti o ammazzato come un cane. Anzi, peggio di un cane: chi abbandona o maltratti uno scodinzolante quadrupede devi vedersela con gli animalisti e i cuccioli trovati nei cassonetti fanno la passerella in televisione per essere adottati. Ma lo zio Ed nessuno se lo sarebbe portato a casa: un vecchio malconcio e puzzolente non fa tenerezza quanto un cagnolino con gli occhioni lucidi.”
Il commissario aveva una limitata capacità affettiva e non provava alcuna simpatia per i derelitti, però si aspettava che la sorte di poveracci come lo zio Ed stesse a cuore almeno alle persone che possedevano una grande sensibilità sociale o una salda fede cristiana. Invece anche loro tiravano diritto davanti alla dolorante umanità gettata come strame sui marciapiedi cittadini: depositavano una banconota nel sottovaso, magari dedicavano qualche ora di tempo al volontariato, ma poi tornavano nelle loro comode case riscaldate e continuavano la vita di sempre.
Sapìa andava in bestia quando sentiva dire che i mendicanti infastidivano solo le persone che non volevano provare rimorsi di coscienza, come se la vita fosse una recita, un gioco delle parti in cui i poveri Lazzari avevano la funzione di far sentire in colpa i ricchi Epuloni e favorire la loro conversione.
“Ovviamente chi crede nella compensazione ultraterrena può anche ritenere che la frase ‘i poveri li avrete sempre con voi’ sia giusta – pensò il commissario guardando il miserabile giaciglio del povero Edo – io invece non faccio mai l’elemosina ma, come un marito divorziato, sarei disposto a versare gli alimenti anche a chi non amo, pur di essere lasciato in pace: pagherei volentieri una tassa per mantenere a pensione tutti i barboni della città, a patto di non dovermi occupare di loro con fede, speranza e carità.”
Allo zio Ed però la solidarietà umana non serviva più. Tutto quello che si poteva fare per lui era trovare chi l’aveva accoppato, una ben magra consolazione per l’interessato, visto che non avrebbe mai saputo di avere ottenuto giustizia.
Il commissario cercò inutilmente nel rapporto di Magliana il nome di qualche testimone.
A parte Biondi Mario detto ‘Professore’, il vagabondo che aveva scoperto il cadavere e avvertito la Polfer poco prima delle due, nessuno risultava presente sul luogo del delitto. Ma, in una fredda notte d’inverno il sottopasso non poteva essere deserto.
“La confusione e le divise hanno fatto il vuoto – pensò subito Sapìa – comunque non si tratta di un problema insormontabile. I senzatetto sono animali abitudinari, hanno preso il volo come uno stormo di timidi passerotti ma, prima o poi, torneranno al nido.”
Quando lavorava su un caso complesso il commissario Sapìa seguiva una procedura di sua invenzione. Per prima cosa ‘metteva lo spillone’ alla vittima e, come un entomologo, la classificava interrogando parenti, amici, conoscenti, vicini o negozianti, poi esaminava sistematicamente l’ambiente di lavoro, i luoghi di svago, la casa, i percorsi abituali della sua ‘farfalla’. Dopo aver accumulato una massa imponente di informazioni, in parte irrilevanti, si metteva a tavolino e scriveva su piccoli post-it, di colori diversi a secondo dell’importanza, i dati raccolti, formando tanti mucchietti di notizie associabili per data, ora, luogo o persona. Quando aveva riempito la scrivania di carta cominciava a spostare i monticelli di appunti: escludeva alcuni, avvicinava altri, metteva in fila quelli che erano in sequenza spaziale o temporale.
Di solito, dopo qualche giorno di frenetici aggiustamenti, Sapìa intravedeva nel caos un ordine, la trama di un racconto credibile con un movente, uno svolgimento dei fatti e un colpevole. Iniziava così a seguire una sola pista e, quando finalmente si sentiva soddisfatto dell’organizzazione che aveva dato alla sua scrivania, cominciava a fare pressione sul sospetto: come tutti gli investigatori sperava di trasformare l’indiziato in colpevole grazie ad una spontanea confessione.
Spesso però si scontrava con tipi coriacei che rifiutavano di riconoscere la bontà delle sue deduzioni e rimpiangeva di non poter corroborare l’evidenza delle prove con una salutare scarica di legnate o un tratto di corda. Si sentiva come uno scultore costretto a riprodurre nel marmo la figura che aveva in mente senza usare scalpello e mazzuolo; e la magistratura esigeva statue ben levigate.
Gli altri commissari lavoravano con metodi standard e guardavano con un sorrisetto di compatimento le manovre cartacee di Sapìa: sapevano che quel bizzarro procedimento spesso produceva risultati, ma preferivano condurre le loro indagini con sistemi tradizionali. Invece di stare seduti davanti alla scrivania fissando con sguardo di Sfinge una marea di foglietti, giravano per la città battendo tutte le piste possibili: i più abili trovavano rapidamente il bandolo della matassa, guidati dalla logica, dall’intuito o dalle cognizioni psicologiche, i più pigri dopo un po’ smettevano di cercare la soluzione e si mettevano a ruota della scientifica oppure aspettavano di ricevere l’imbeccata giusta dagli informatori.
In fondo avevano ambizioni diverse: i colleghi si accontentavano di chiudere il caso, Sapìa voleva ricostruire il segmento di realtà che conteneva il delitto e sbrogliare completamente il groviglio di effetti e cause, non sempre conseguenti, che lo aveva prodotto.
Dopo aver letto l’inconcludente rapporto di Magliana, il Commissario decise di applicare all’omicidio del barbone il suo speciale metodo d’indagine.
Per fissare le coordinate dell’inchiesta, disegnando intorno alla vittima un cerchio umano, temporale e topografico, occorreva però raccogliere una notevole quantità di dati e, in questo genere di lavoro, nessuno era più rapido ed efficiente dell’ispettore Morganti.
Sapìa lo considerava un sottoposto scomodo e polemico ma, quando aveva bisogno della sua collaborazione, deponeva le armi e assumeva un atteggiamento rudemente benevolo. L’antipatia era reciproca; anche l’ispettore detestava con tutta l’anima il commissario però accettava sempre i suoi incarichi: chi indagava per conto di Sapìa non perdeva tempo.
Rosanna Bogo
Pingback: La prima inchiesta del commissario Sapìa – 2 « Scrivolo
Pingback: La prima inchiesta del commissario Sapìa – 4 « Scrivolo