“Ma dove vai conciato a quel modo?” chiese la mamma dalla cucina. Stava lavando i piatti della cena ma l’aveva intravisto passare nel corridoio.

“Esco” rispose Cesare.

“Grazie dell’informazione – disse il padre, sdraiato sul divano davanti al televisore – ma  questo l’avevamo già capito: non ci si veste da conte Dracula per passare la serata in famiglia! tua madre voleva solo sapere dove dobbiamo venire a cercarti nel caso ti sgozzino o ti seppelliscano vivo durante una Messa Nera.”

“Sì, prendetemi pure in giro, almeno vi divertite anche voi” replicò Cesare. Era fermo davanti al grande specchio del corridoio e cercava di sistemare alla meglio il suo costume: in realtà non era abbigliato da conte Dracula, affittare mantello e smoking costava una cifra, indossava semplicemente uno spolverino nero con disegnato sulla schiena uno scheletro e un cappello a punta con applicati lunghi capelli neri posticci. Al collo gli pendeva una maschera horror che doveva farlo sembrare uno stregone, ma l’avrebbe messa solo alla festa.

“Vorrei sapere che gusto c’è a prendere in giro i poveri morti, riposino in pace – disse la madre affacciandosi alla porta della cucina con un piatto in mano – e quanto alle anime dannate, a maggior ragione sarebbe meglio non disturbarle. Pensare che quando eri piccolo, a Carnevale, non volevi metterti in maschera perché ti sembrava una cosa da femmine.”

“Non è colpa mia se ora è di moda festeggiare la vigilia dei Santi – rispose Cesare, ormai pronto per uscire – io vado a ballare, non a un Sabba, ma in questa occasione bisogna presentarsi vestiti così.”

“Bella moda davvero – commentò il padre dal salotto – se qualche moccioso si azzarda a suonare alla porta con quella baggianata del dolcetto o scherzetto giuro che faccio peggio di Erode.”

“Ma sotto ti sei coperto bene? guarda che fuori fa freddo. E non fare troppo tardi” disse la madre.

“Si, non ti preoccupare e, soprattutto, non mi telefonare e non mi aspettare alzata – rispose Cesare aprendo la porta di casa – non sono solo, sto con Giulio e Carlo.”

“Buona morte” lo salutò ironicamente il padre.

“Buona morte anche a te” rispose Cesare un po’ stizzito, chiudendosi l’uscio alle spalle.

In effetti Helloween sembrava anche a lui una scemenza, quella che una volta si diceva un’americanata, ma quando si sta in una compagnia bisogna adeguarsi. “Proprio voi – pensò rivolto ai genitori – mi avete insegnato che è meglio essere come gli altri, evitare di apparire ‘diverso’, e poi avete da ridire se mi comporto come i miei amici.”

Aveva un appuntamento in birreria con Carlo e Giulio, poi sarebbero andati a ballare in qualche posto un po’ strano, con il resto della congrega. Le ragazze del gruppo quell’anno avevano attrezzato come pista da ballo all’aperto il parcheggio accanto al cimitero: uno stereo, lanterne cinesi e un paio di cassette di birra e vodka erano gli ingredienti sufficienti per una festa da notte delle streghe. A Cesare non era sembrata affatto una buona idea, il camposanto non gli piaceva di giorno, figuriamoci di notte, però con tante persone intorno che si agitavano, alcool a volontà e musica a tutto volume, non fece troppo caso al luogo in cui si trovava e neppure al freddo della notte autunnale. Verso mezzanotte però il cielo stellato si rannuvolò e una pioggia leggera ma insistente costrinse streghe, diavoli e vampiri a ripiegare verso la più vicina discoteca. Cesare salì in auto con i due amici e una ragazza. Carlo si mise al volante: tutti erano un po’ alticci, compreso il guidatore. Dopo un paio di chilometri percorsi sempre in prima la macchina comincio a zigzagare.

“Attento!” gridò Cesare, il solo abbastanza lucido da accorgersi dell’anomalia.

“A che?” biascicò Carlo semiaddormentato, girando bruscamente il volante a destra. Uscirono di strada. Fortunatamente la cunetta non era profonda e l’auto s’infilò in un groviglio di rovi che attutì l’impatto, evitando che gli air-bag si aprissero. Il motore continuava ad andare ma ormai erano fermi, bloccati da un albero. E illesi.

“Usciamo – disse Cesare – dobbiamo rimettere in carreggiata la macchina.”

“E che fretta c’è? Noi qui stiamo tanto bene, ci scoliamo la nostra ultima bottiglia di Vodka e ascoltiamo un po’ di musica” rispose Giulio accendendo la radio. Accanto a lui Carlo russava con la testa appoggiata al finestrino. La ragazza rideva come una scema, era del tutto sbronza.

“Allora felice Halloween, ci vediamo domani”  disse Cesare scendendo dall’auto.

Non voleva chiedere aiuto, se i suoi genitori avessero saputo dell’incidente lo avrebbero tormentato per settimane. La pioggia era quasi del tutto cessata e decise di tornare a casa a piedi: dopo tutto si trattava di fare quattro o cinque chilometri nella direzione opposta alla discoteca. S’incamminò lungo la provinciale rassegnato alla scarpinata. I lampioni in quella zona di estrema periferia erano rari, ma i fari delle macchine in transito gli illuminava il cammino.

Non osava chiedere un passaggio perché le auto avevano più o meno tutte un andamento anomalo: per lo più sfrecciavano velocissime al centro della strada, alcune ondeggiavano pericolosamente tra le due corsie. Probabilmente nessuno dei guidatori era del tutto sobrio e due incidenti nella stessa sera sarebbero stati davvero un po’ troppo.

Per prudenza, quando la luce dei fari diventava intensa, si buttava in cunetta, pronto a fuggire nei campi in caso di fuoristrada. Dopo una mezz’ora di questo tira e molla si accorse che, un centinaio di metri più avanti, qualcuno camminava nella sua stessa direzione. Da come si muoveva sembrava una persona giovane. Cesare accelerò il passo e lo raggiunse: era completamente vestito di nero ma non indossava una maschera di Halloween, bensì una tuta di pelle da motociclista.

“Ehi! Vai anche tu in paese?” gridò Cesare a qualche decina di metri di distanza.

Lo sconosciuto si fermò, girandosi per guardare chi aveva parlato.

“Io sono uscito di strada con l’auto e ho deciso che era meglio tornare a casa a piedi” disse Cesare.

“Anch’io sono uscito di strada con la moto.”

“Non si dovrebbe bere, ma alle feste se non ti sbronzi non ti diverti” osservò Cesare.

“Guarda che io sono astemio, l’incidente l’ho fatto per evitare un cane che attraversava la strada” replicò l’altro viandante, un po’ risentito.

“Già, anche quello è un pericolo, non bisognerebbe correre, mai.”

“Già, ma con una ducati 750 come fai ad andare piano!”

“Una bella moto…non mi sembra di averti mai visto da queste parti, al bar o in discoteca. Sei di passaggio?”

“No, sono di qui.”

“Se hai frequentato il Liceo ci siamo di sicuro incontrati.”

“No, ho fatto il Commerciale.”

“Ah, il Pertini.”

“No, l’Einaudi.”

“Sì prima si chiamava così, insomma Ragioneria.”

“E tu dove abiti” chiese lo sconosciuto.

“All’inizio del paese, nel quartiere Colmar, in uno dei palazzi rosa, sai quelli con quel colore terribile, da confetto.”

“Conosci per caso la signora Nives Corti?”

“E come no, sta sul mio pianerottolo, è una signora anziana, vedova.”

“Beh allora me la saluti, io non posso andare a trovarla. E come sta in salute…sapevo che soffriva di cuore.”

“Sì, il cuore le fa qualche brutto scherzo ogni tanto, però se la cava ancora da sola e, a ottanta anni, è già una fortuna.”

“Ottanta anni…così vecchia.”

“Sai come si dice, o invecchi o crepi. I miei genitori sono ancora giovani ma a volte penso che tra vent’anni saranno come la signora Nives, se ci saranno ancora…” replicò Cesare rattristato da quel pensiero che, ogni tanto, gli frullava in testa.

“Beh, salutamela tanto! Io vado da questa parte, verso la 167 ovest. Ci vediamo” disse lo sconosciuto girando a destra: imboccò un oscuro viottolo che, attraverso il bosco, portava al nuovo quartiere delle case popolari. Cesare lo conosceva bene perché da bambino passeggiava con il nonno da quelle parti e spesso percorrevano quella scorciatoia per andare al cimitero, a portare qualche fiore di campo sulla tomba della nonna.

Lo sconosciuto scomparve quasi subito nel buio e Cesare solo allora si rese conto che non gli aveva detto il suo nome. “Beh, – si disse – vorrà dire che porterò alla signora Corti i saluti di un giovanotto che abita alla 167 ovest, saprà lei chi è.”

Dopo un’ora era già a casa. Quando chiuse la porta vide la luce in camera della madre spengersi. Come sempre l’aveva aspettato sveglia. Se avesse saputo dell’incidente chi sa quanto si sarebbe angosciata, già era apprensiva di carattere.

L’indomani Cesare dormì fino a tardi. I genitori erano andati a fare il giro dei cimiteri, portando fiori a tutti i parenti del circondario, e ricomparvero solo all’ora di cena. La madre gli chiese se si era divertito alla festa, Cesare rispose in modo evasivo e, ovviamente, non disse nulla dell’incidente e dello sconosciuto incontrato sulla strada di casa.

Le lezioni all’Università erano sospese per una settimana e così Cesare trascorse anche il giorno dei morti in famiglia.

Il babbo era a letto con un brutto mal di schiena: gli accadeva quasi sempre dopo il “tour” dei cimiteri, a forza di trasportare secchi d’acqua, riempire vasi, lucidare marmi posti nelle posizioni più scomode, o troppo in basso o troppo in alto, la sua vecchia ernia al disco si riacutizzava e lo costringeva a passare qualche giorno in assoluto riposo.

A tavola la madre servì alcuni dei piatti preferiti del figlio, poi cominciò un discorso sulla necessità di essere gentili con il prossimo, quindi si mise a lodare il buon cuore del figlio. Cesare capì subito che quelle manovre di accerchiamento avevano uno scopo e, dopo un po’, la costrinse a mettere le carte in tavola:

“Insomma mamma, dimmi cosa vuoi da me e facciamola finita!”

“Cesarino, tu sei sempre stato un ragazzo di cuore…lo sai che la signora Nives viene al cimitero con noi, per i Santi, ma ieri non si sentiva bene e così le abbiamo promesso che l’avremmo accompagnata oggi, ma il babbo, hai visto come sta, non può guidare…dovresti portarla tu…me lo faresti questo piacere?”

Cesare non aveva davvero voglia di passare un pomeriggio al cimitero e poi proprio nella bagarre del 2 novembre, ma la madre fu molto insistente ed alla fine acconsentì.

Alle tre era già davanti al cancello del camposanto con la vedova Corti. Non le aveva detto nulla del giovanotto perché temeva che in qualche modo venisse fuori la storia dell’incidente. Una parola tira l’altra e magari qualcosa poteva arrivare all’orecchio dei genitori. Con conseguenti rimproveri per lui e gli amici o addirittura divieto di uscite serali a tempo indeterminato.

Cesare da bambino accompagnava spesso il nonno e la mamma al cimitero e conosceva tutte le operazioni connesse a quel genere di visita: mentre la signora Nives lucidava il marmo del marito, sepolto in terra, andò a prendere l’acqua, facendo pazientemente la fila con decine di anziani, lavò i vasi e tagliò i gambi dei fiori. Pensava che la visita fosse finita lì, ma la vedova Corti raccolse le sue cose e, con un mazzo di rose, si diresse verso una ‘piccionaia’. Evidentemente aveva un parente anche nei fornetti. Cesare la seguì di malavoglia. Quando arrivò di fronte al loculo che la signora Nives stava lucidando diede un’occhiata alla foto del defunto e rabbrividì. Raffigurava un giovane sorridente vestito con una tuta da motociclista e un casco in mano: era il ragazzo della 167 ovest. Lesse il nome, Fabio Corti, morto all’età di ventidue anni.

“E’ mio figlio – disse la signora Nives, notando il disagio di Cesare – sono trenta anni che non c’è più, ma per me è come se fosse uscito di casa questa mattina. Ti fa impressione perché aveva la tua età?”

“E’ la prima volta che vedo una foto di suo figlio…sapevo che era morto per una malattia, ma non pensavo fosse così giovane”

“Beh, questa foto tu l’hai già vista e non così tagliata a metà. Nel mio salotto, anni fa, tenevo in mostra un ingrandimento dove si vedeva anche la moto, una ducati 750. Fabio  l’aveva voluta a tutti i costi come regalo di diploma. Era passato con il massimo dei voti, si era subito impiegato in banca e mio marito, alla fine, decise di comprarla. Dopo tutto era un ragazzo con la testa sulle spalle: hanno detto che forse aveva bevuto o era drogato, perché uscì di strada in un rettilineo, da solo, ma io non ci credo. Era sempre prudente.”

“Magari un cane o un cinghiale gli avrà attraversato la strada” disse Cesare quasi senza rendersi conto di ripetere la versione dello sconosciuto.

“Anch’io ho pensato la stessa cosa, ma chi può dire con certezza cosa è accaduto!”

“Cosa mi diceva della foto…io non me la ricordo”

“La prima volta che sei venuto a casa mia con la tua mamma avevi forse quattro anni. Eri un bambino e la grande fotografia con la moto rossa che tenevo sul tavolino basso in salotto ti ha subito attirato. Toccandola hai detto ‘anch’io, anch’io come lui’ e ho visto la tua mamma sbiancare in volto. Da allora conservo quella foto in camera mia: non è giusto imporre al prossimo l’immagine del proprio dolore. Tu non ti ricordi questo episodio perché eri molto piccolo e poi nessuno ti ha più parlato della moto e dell’incidente, credevi che il mio Fabio fosse morto di malattia, invece si è schiantato al chilometro 12 e 400 della statale, il casco gli è volato via ed ha battuto la testa contro un albero.”

“Lo sa che ripensandoci ora mi spiego perché mia madre non ha mai voluto comprarmi neppure un motorino. Ha sempre temuto che si avverasse quel mio desiderio.”

“Non sarà così, ognuno segue il proprio destino e tu diventerai vecchio, lo sento.”

Cesare non sapeva come entrare nel discorso del suo incontro notturno, non voleva sembrare un visionario o magari una vittima di allucinazioni da alcool o altro. Dopo tutto la faccia e la tuta nera le aveva già viste in fotografia e forse in casa sua qualcuno aveva parlato dell’incidente. Quei ricordi della prima infanzia che non sapeva di avere erano di certo registrati in qualche parte del suo cervello e tra i fumi dell’alcool e lo spavento per il fuoristrada potevano essere riemersi.

“Ma lei come pensa che stia suo figlio, là dov’è?”

“Era un ragazzo buono e gentile, si meritava il paradiso, e spero che ci sia davvero un luogo dove potremo rivederci un giorno, magari presto. Ma a volte penso che esista solo questo mondo e che tutto finisca con la morte.”

“Allora le piacerebbe rivedere suo figlio, sarebbe contenta se le apparisse davanti!”

“Ma che dici! Per carità, io ho sempre avuto paura degli spiriti. Quando eravamo bambini, nelle veglie in campagna i vecchi ci spaventavano con storie di apparizioni di defunti che volevano vendicarsi dei torti subiti o venivano a portarsi via i vivi. Oggi voi giovani fate le feste in maschera vestiti da diavoli, fantasmi, scheletri o streghe, ai miei tempi invece avevamo un vero terrore per tutto quello che riguardava gli spiriti e l’aldilà.”

“Così avrebbe paura anche se vedesse suo figlio” chiese Cesare, sempre per tastare il terreno.

“Non sarebbe un buon segno, le anime che vagano sono spiriti in pena.”

“Magari ogni tanto vanno in libera uscita anche i residenti del Paradiso.”

“No, no, non vorrei proprio avere una visione dall’oltretomba. Da quando Fabio è morto non l’ho mai neppure sognato. Forse verrà a prendermi quando sarà il mio momento, ma allora lo vedrò perché anch’io non sarò più in questo mondo.”

Cesare ora si spiegava perché Fabio non si era presentato alla madre, malata di cuore e tanto impaurita dai fantasmi. Era un comportamento comprensibile, lui non si era spaventato perché lo riteneva una persona viva, se avesse pensato di avere a che fare con un trapassato sarebbe come minimo svenuto. Adesso, solo pensare alla sua esperienza sovrannaturale, gli faceva venire i brividi. Doveva o no portare alla signora Nives i saluti del figlio dall’oltretomba? Magari la vecchina si sarebbe fatta prendere da un infarto oppure lo avrebbe giudicato un burlone di cattivo gusto.

Mentre riportava a casa la vecchia signora, come ultimo tentativo di darsi una spiegazione razionale dell’accaduto, Cesare le chiese se conosceva qualcuno che abitava nella 167 ovest, un ragazzo, magari il nipote di qualche sua amica.

“Caro il mio Cesare, chi vuoi che conosca ormai – rispose Nives – ho ottanta anni, le mie conoscenze stanno tutte dietro quel cancello che abbiamo appena superato.”

Quando passò nel punto della provinciale in cui aveva incontrato il giovanotto la signora Corti non ebbe reazioni, evidentemente l’incidente non era accaduto lì. Cesare guardò il paracarro: chilometro 10.

Cesare per tutta la sera continuò a pensare a come risolvere la situazione: il defunto aveva mandato i suoi saluti, si era fidato di lui, in un certo senso lo aveva scelto come ambasciatore. Del resto non poteva fare di persona questa comunicazione perché la madre aveva un sacro terrore dei morti, persino di lui. Cesare pensò che se suo nonno in quel momento gli fosse apparso non avrebbe avuto paura: quando era morto aveva compreso il senso definitivo della sua assenza solo dopo che lo avevano chiuso nella cassa e poi murato nel loculo. Dopo, al risveglio, tante volte aveva sperato di trovarlo di nuovo seduto a tavola, intento a fare colazione come ogni mattina.

“Se ora andassi in cucina e il nonno fosse lì – si disse Cesare – sarei contento di sedermi e parlare ancora con lui. E invece mi è toccato il fantasma amato da un’altra persona, uno sconosciuto che mi da un incarico ed io non so come sbrogliare la faccenda.”

Mangiò di malavoglia e si mise subito a letto. La madre andò a dargli la buonanotte in camera, un po’ preoccupata.

“La visita al cimitero ti ha rattristato, sei andato a salutare i nonni?” chiese la mamma.

Cesare si stupì di non averlo fatto, ma tanto era angosciato dalla faccenda del fantasma che neppure gli era passato per la mente. Ma per rassicurare la mamma mentì:

“Sì, sono stato dai nonni, ancora dopo tanti anni mi dispiace che siano morti”

“Tutti dovremo morire, anche io e il babbo, poi però ci rivedremo da qualche parte, ne sono sicura. Che senso avrebbe altrimenti vivere, sarebbe troppo crudele se la morte mettesse fine a tutto, nessuno farebbe figli o si sposerebbe.”

“E tu credi che i morti a volte tornino a trovarci?”

“Mia nonna e mia zia non erano fuori di testa, ma sostenevano di avere visto due loro congiunti dopo la morte.”

“E tu, tu hai mai visto niente?”

“No, però a volte ho avuto l’impressione che il nonno fosse ancora in casa, ma solo una sensazione… Halloween è passato, perché ti metti a fare questi discorsi sui fantasmi, tanto voi giovani non avete più paura dei defunti, li prendete persino in giro e la morte non vi spaventa perché alla vostra età vi credete eterni, basta vedere come buttate via la vita il sabato sera…”

“Sai mamma, ho deciso di diventare astemio” disse Cesare. La madre si mise a ridere.

“Non è una battuta, davvero non voglio più bere. E quanto ad Halloween l’anno prossimo rimango a casa. Con la morte non si scherza.”

“Mi sa che devi confessare qualcosa…- replicò la mamma, divenuta all’improvviso seria – è da ieri che aspetto che tu parli.”

“Di cosa?” disse Cesare quasi temendo che la madre gli leggesse nel pensiero.

“Ma dell’incidente, ovvio! La signora Ferdi, la mamma di Carlo mi ha telefonato per scusarsi dell’accaduto. Vedrai che per un pezzo il tuo amico non toccherà volante. Fortuna che ha telefonato al padre e lui è andato a recuperarlo al chilometro 12 e 400 della provinciale senza che la polizia stradale sapesse nulla, altrimenti perdeva patente e macchina.”

“Allora sai già tutto – rispose Cesare – non dovevo salire in auto con un ubriaco al volante, ma anch’io non ero del tutto in palla, per questo voglio smettere di bere.”

“Sì, va bene, domani ti iscrivo all’Esercito della Salvezza, buona notte” disse la mamma con tono indulgente. L’autocritica di un figlio di vent’anni era già una vittoria per un genitore.

Cesare però non trascorse affatto una buona notte. L’indomani mattina suonò alla porta della signora Nives, deciso a portare la sua ambasciata.

La vecchia signora lo fece accomodare, gli offrì un caffè e volle a tutti i costi che accettasse trenta euro come ricompensa per la sua gentilezza.

“Sono quattro soldi, ma bastano per comprare un libro o un maglione, qualcosa di tuo gusto, io non saprei che regalarti. Anche a mio figlio non sapevo mai cosa comprare a Natale o per il compleanno, voi giovani invece avete le idee chiare su quello che vi piace.”

“Signora Nives, non sono qui per questo, se insiste accetto il denaro, per non offenderla, però è di altro che devo parlarle… Senta, io non so se lei mi crederà, però ho promesso di fare una cosa e la devo fare…

Dunque l’altra sera, la notte di Halloween, sono uscito a divertirmi con i miei amici, andando in discoteca siamo usciti di strada ma, per fortuna, senza farci nulla. Io ho deciso di tornare a casa a piedi, tanto non pioveva più, e lungo la strada ho incontrato una persona che mi ha detto di salutarla. Era il ragazzo in tuta della foto al cimitero.”

La signora Nives sbiancò in volto, si capiva che la sua mente era agitata da mille pensieri.

“Come stava? – disse con un filo di voce – aveva qualche ferita alla testa, è la testa che si è rotta nell’incidente…”

“Mi è sembrato un ragazzo del tutto normale, mi ha raccontato del cane che gli ha tagliato la strada e del casco volato via, ma stava bene, era tranquillo e mi ha detto di salutarla. Ecco tutto. Lei può anche credere che fossi ubriaco e avessi le traveggole, per me va bene. Io ho fatto il mio dovere.”

“Grazie – disse la signora Nives accompagnando il suo ospite alla porta – grazie di cuore. Un giovane deve avere coraggio per dire certe cose in un mondo di miscredenti. Grazie.”

Cesare rientrò in casa sollevato. La faccenda del chilometro 12 e 400 l’aveva convinto della necessità di liberarsi da quel segreto, c’erano un po’ troppe coincidenze in tutta quella storia per non essere segnali di qualcosa che veniva da un’altra dimensione. A tavola guardò i genitori e tra sé pensò “sono contento che ci rivedremo dopo la morte.”

“Lo sai Alfredo che Cesare vuole diventare astemio” disse la madre.

“Ma non mi dire, Mirella, abbiamo un santo in casa! – replicò ironico il padre – Allora, Cesarino, hai preso davvero uno spaghetto l’altra sera con i tuoi amici, però non serve andare da un eccesso all’altro, basta che uno di voi non beva per riportare gli altri a casa sani e salvi. Naturalmente però, tra qualche anno, ognuno dovrà fare i conti con il proprio fegato e anche con qualche neurone bruciato in più, ma nella nostra società essere cretini è diventato quasi un vantaggio. L’altra sera, quando eri tutto contento di uscire vestito da scheletro ho pensato che sei già a buon punto.”

“Via, Alfredo, non lo sfottere! è un bravo ragazzo, pensa che ha persino portato la Signora Corti al cimitero.”

“A proposito, la Signora Nives mi ha dato trenta euro. Io non li volevo… ma ha insistito così tanto.”

“Povera donna, vive con una pensione minima, per lei sono un capitale.”

“Ma io non li volevo, davvero!”

“Sì, certo, ti credo – disse la mamma – li puoi tenere. Stasera vado a trovarla con la scusa di vedere se si è rimessa dal suo malore dell’altro giorno e le porto in regalo qualche bel pezzo di carne da mettere in congelatore, così facciamo pari.”

L’indomani mattina la signora Mirella si accorse che le tapparelle dei Corti non erano sollevate come sempre a quell’ora. Pensò ad un malore della vicina e, dato che aveva le chiavi del suo appartamento, per ogni evenienza, bussò, suonò e poi aprì. La signora Nives era nel suo letto: sembrava dormisse ma quando la toccò per svegliarla la signora Mirella sentì che era fredda, morta da ore.

Tornò in casa e telefonò ai due nipoti della vecchia signora. Vennero subito a casa della zia per occuparsi delle esequie e delle formalità burocratiche.

A pranzo Cesare, rientrato dalla palestra trovò solo una frittata: la mamma era in lacrime e non aveva cucinato altro. Gli riferì della disgrazia.

“Povera signora Nives, sembrava che se lo sentisse. Ieri sera mi ha detto ‘lo sa signora Mirella che il mio Fabio è venuto a chiamarmi?’, poverina, aveva avuto un presentimento o forse sentiva che la malattia si aggravava. Magari dovevo portarla all’ospedale. Ma pensavo che fosse un’idea, una di quelle fisse che vengono ai vecchi, quando dicono che i morti vengano a prenderli!”

Cesare rimase senza parole: era la sua ambasciata che aveva fatto venire un infarto alla signora Nives, convinta che il saluto del figlio le annunciasse l’imminente morte, oppure Fabio, tornato sulla terra per portarla con sé non aveva avuto il coraggio di spaventare la sua vecchia mamma con un’apparizione e aveva affidato ad un estraneo l’incarico di avvisarla?

VN:F [1.9.22_1171]
Rating: 0.0/5 (0 votes cast)

Rosanna Bogo