Brecht in carcere - da: http://www.compagniadellafortezza.org/photogallery

Marcello era abituato ad andare in giro con la banda. Avevano visitato innumerevoli paesi e città, incontrato tante persone, partecipato a raduni e concorsi. Però rimase sorpreso quando gli chiesero: “Se andiamo a suonare nel carcere, tu ci sei?”. Sulle prime aveva pensato che stessero scherzando, poi li aveva guardati in faccia e aveva capito che la domanda era seria; in un attimo si era anche reso conto che la sua sorpresa era fuori luogo, perché non c’era nulla di strano. Avevano suonato nelle case di riposo, nelle scuole…e perché non in carcere? Tergiversò, dicendo che non sapeva se in quel periodo sarebbe andato al Nord a trovare suo figlio. In macchina, mentre i due “colleghi” seduti davanti parlavano della pioggia imminente e degli ultimi avvenimenti politici, Marcello pensava e ripensava: a suonare in galera, lo volevano portare. In galera ci sono i delinquenti, e si trovano lì perché hanno fatto del male a qualcuno. Che c’entra che si vada anche a rasserenarli con la musica? Proprio lui, ci volevano portare, lui che pur essendo comunista da sempre, era favorevole alla pena di morte.

Arrivato a casa si confidò con la moglie. Lei lo ascoltò, poi sentenziò: ma scusa, che ti importa, tu non devi mica andare a giudicarli, tu devi solo andare a suonare. Lascia che siano i giudici a stabilire se e quanto devono pagare per il male che hanno fatto. Se ci pensi bene, quando suoni in piazza non lo sai mica chi hai davanti, potrebbe esserci chiunque. Ma tu non lo sai e suoni tranquillo. Non ti pare?

Marcello non sapeva se “gli pareva” o no, doveva ancora riflettere. Poi però passarono i giorni e non ci pensò più. Alla prova, la settimana successiva, il maestro spiegò più precisamente di cosa si trattava. Non era previsto un semplice concerto; la banda avrebbe partecipato allo spettacolo che sarebbe stato messo in scena dalla compagnia teatrale interna al carcere, a cui partecipavano i detenuti considerati meritevoli di avere un “hobby” durante la detenzione. Sarebbe stata un’esperienza unica perché solo in pochi casi veniva consentito l’accesso agli esterni, quindi poteva essere considerata una rara opportunità. Il privilegio di conoscere dei delinquenti. Roba da matti, pensò Marcello. E poi accettò.

I brani da preparare per il carcere erano solo tre, e neanche particolarmente difficili. Si trattava di una rappresentazione liberamente ispirata all’ ”Opera da tre soldi” di Bertold Brecht, su musica di Kurt Weill. Non il suo genere preferito, ma la considerava almeno suonabile. Titolo dello spettacolo: i pescecani. Deve essere vagamente autobiografico, si disse Marcello, sorridendo tra sé e sé.

Per poter entrare nel carcere dovettero fornire in anticipo tutte le generalità. Nessuno che non fosse compreso nell’elenco avrebbe potuto varcare quella soglia, su questo la direzione fu tassativa. La sera della prova generale i musicanti furono fatti accomodare in una sala d’aspetto al piano terra, poi, uno per volta, li invitarono a salire le scale, a depositare in guardiola documenti e cellulari e, finalmente, ad entrare. La porta dava su di un ampio cortile interno, al centro del quale si trovava una specie di grossa gabbia. Le guardie spiegarono a Marcello che era il campo per la ginnastica, dove, durante l’ora d’aria, i detenuti potevano fare un po’ di esercizio fisico. Musica, teatro, esercizio fisico…mica se la passano tanto male, ‘sti delinquenti…, pensò Marcello. Attraversarono il cortile dirigendosi verso l’edificio vero e proprio: alzando gli occhi per vederne la sommità si notavano le grandi guglie e le torrette sugli angoli; sembrava più un castello che un carcere, ed incuteva un certo timore. Una volta all’interno si trovarono a percorrere un lungo corridoio su cui si affacciavano innumerevoli porte chiuse, ognuna delle quali portava una targhetta con l’indicazione del tipo di utilizzo cui era destinato il locale. Superarono la “sala mensa”, la “sala giochi”, la “saletta di studio”, la “sala di lettura”, l’aula “scuola media” e quella degli “istituti tecnici”. Quando furono di fronte alla “sala teatro” la guardia aprì ed il gruppo entrò dentro. Era una stanza di media ampiezza, con un’unica grande finestra sulla parete opposta all’entrata. Appoggiate al muro, tutt’intorno, delle panche di legno e nient’altro. Non c’erano decorazioni o arredi di alcun tipo. Marcello si sedette su una delle panche, in attesa di istruzioni.

Arrivò il regista. Si presentò in modo cordiale e spiegò in che cosa doveva consistere la loro partecipazione. Disse che in realtà non avrebbero mai fatto una vera e propria prova generale, perché la maggior parte dei detenuti non potevano uscire dalle celle la sera dopo cena. Di lì a poco ne sarebbero arrivati due, e insieme avrebbero ripassato lo schema generale dello spettacolo e stabilito esattamente i vari interventi che la banda avrebbe effettuato.

Marcello assisté distrattamente al colloquio con il regista e con i due detenuti. Era inquieto. Ascoltava i rumori provenienti dal corridoio, immaginava le celle, si chiedeva se avessero davvero le sbarre. Si trovava in una realtà parallela a quella che aveva sempre vissuto, in un luogo in cui lui non aveva motivo di essere se non per quella bizzarra dedizione a questo suo mestiere di musicista dilettante. I due tipi che esponevano il contenuto dello spettacolo erano un ragazzo e un uomo di mezza età. Il più giovane era il cantante del gruppo rock che avrebbe suonato alcune canzoni, l’altro era Mackie Messer in persona, ossia colui che avrebbe ricoperto il ruolo del brigante brechtiano sempre munito di coltello. Marcello lo ascoltò raccontare, con un marcato accento meridionale, la trama imprecisa dell’Opera da tre soldi, osservò con distacco i suoi gesti teatrali, i suoi abiti fuori moda, le mani con le unghie mangiate e, particolare che suscitò in lui una buona dose di disgusto, il polso destro tatuato con un serpente nero.

Continua….

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Beatrix