That is no country for old men. The young
In one another’s arms, birds in the trees
—Those dying generations—at their song,
The salmon-falls, the mackerel-crowded seas,
Fish, flesh, or fowl, commend all summer long
Whatever is begotten, born, and dies.
Caught in that sensual music all neglect
Monuments of unaging intellect.
(William Butler Yeats)
–
Prima Parte.
Il prof. Coriolano insegnava matematica agli studenti delle prime classi del liceo scientifico Fibonacci, un istituto che ancora godeva di buona fama, nonostante i tempi, grazie alla severità dei suoi docenti. E Coriolano era, senza dubbio, tra i più temuti.
Domare gli “onagri”, così i professori del Fibonacci chiamava tra di loro i turbolenti novellini del biennio, diveniva però, anno dopo anno, un’impresa sempre più difficile. Non si trattava solo di colmare le usuali carenze nozionistiche ereditate dalla scuola media: ultimamente le nuove leve manifestavano una strana agitazione psicomotoria che il corpo docente attribuiva alla dipendenza combinata da computer e telefonino. Secondo Coriolano la vera causa del fenomeno era invece l’assorbimento, per via “mediale”, di un’eccessiva quantità di informazioni di basso livello. “Presto raggiungeranno l’entropia mentale – affermava, conversando sull’argomento in sala professori – il cervello dei ragazzi è continuamente stimolato dall’esterno, ma elabora pensieri di qualità sempre più scadente: sarà questa la fine dell’umanità, altro che guerra nucleare!”.
Nonostante fosse così pessimista riguardo al futuro dell’Homo sapiens, Coriolano non desisteva dal tentativo di svuotare le zucche dei suoi allievi dalla melma d’imbecillità in cui affondavano. “Certo non pretendo di lustrare le stalle di Augìa – diceva scherzosamente ai colleghi – ma, almeno per qualche ora alla settimana, costringo i miei studenti a vivere nell’irreale mondo della logica. Probabilmente scambiano la lezione di matematica per una specie di videogioco, ma comprendono al volo che, per vincere la sfida ed evitare le raffiche di iper-insufficienze che sparo con la mia Waterman, occorre usare il cervello, risolvere equazioni, trovare dimostrazioni, applicare teoremi. Tra di loro mi chiamano Coriolanus il retiarius e, a dire la verità, essere un avversario così temuto mi lusinga”. Solo l’insegnate di latino però sorrideva udendo quello strano soprannome, tratto dal gergo gladiatorio.
Coriolano tuttavia non era animato, come altri insegnanti della sua materia, da intenti persecutori: nel giorno del compito in classe, non si metteva certo le scarpe da tennis per saltellare più agilmente tra i banchi ed impedire agli studenti di copiare! Nei confronti dei suoi allievi provava anzi un misto di affetto e compassione: a volte si irritava con i più strafottenti, ma non portava rancore.
“Hanno troppi ormoni e poca esperienza – pensava tra sé – ora brucano l’erbetta dei campi e saltellano credendosi arieti, presto però dovranno assaggiare le radici amare della vita: detestano la matematica perché richiede impegno e concentrazione, studiano il meno possibile, fanno forca per evitare il compito in classe o l’interrogazione, ma cosa sono una nota sul diario o un quattro in pagella a fronte della malattia, della morte di una persona cara, delle umiliazioni e dei fallimenti di un’esistenza adulta?!”.
Certo non mancavano le eccezioni. Dopo tante strigliate di razionalità talvolta, dalla massa degli “onagri”, emergeva qualche asino di Baalam, ma Coriolano temeva come la peste gli adolescenti “dotati”: nella sua carriera di docente contava già tre suicidi di studenti “intelligenti” e solo un paio di allievi “geniali” avevano davvero fatto carriera, il più giovane era ricercatore al CNR di Ginevra, l’altro insegnava ad Harvard. Delle “promesse mancate” aveva da tempo perso il conto.
Di solito iniziava la prima lezione dell’anno spiegando ai neofiti liceali la successione numerica scoperta dall’eponimo dell’Istituto, il “celebre” matematico medievale Fibonacci.
“Fido che?!” rispondeva in coro la classe ridendo ed abbaiando.
Coriolano, da più di venti anni abituato a simili reazioni, si avvicinava tranquillamente alla lavagna e, impugnando un gessetto in grado di produrre un’insopportabile stridore che utilizzava solo per questa speciale occasione, scriveva la formula di Fibonacci:
“Si tratta, in pratica, di sommare un numero intero con il precedente, partendo da 0: quindi 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21 ecc…” diceva con voce ferma e tranquilla, mentre alle sue spalle gli studenti facevano baccano, masticavano gomma e girellavano per l’aula; abitudini che però perdevano quasi subito perché ai “vagabondi” ed ai “ruminanti” il Professore, senza una parola di rimprovero, assegnava un sostanzioso carico aggiuntivo di compiti a casa.
Coriolano fingeva di non sentire le risatine, le battute, le frasi del genere “Che cretinata”, “Sai che genio”, “Bella scemenza”, “A che cavolo serve?”, poi si voltava di scatto e, con un sorriso ironico, indicando il misterioso geroglifico che aveva disegnato sulla lavagna, aggiungeva: “Questa è la formula che descrive la “semplice” progressione numerica del povero Fi-bo-nacci. A prima vista può sembrare incomprensibile ed anche inutile, ma intanto conoscerla serve a non prendere un brutto voto in caso di interrogazione e poi descrive un’infinità di fenomeni naturali: il numero dei pinoli in una pigna, la moltiplicazione di una coppia di conigli, il movimento di individui in un ambiente ristretto ed è persino collegata alla sezione aurea”
“Allora il suo Fido-nacci ha scoperto come Dio creò la pigna?” replicava il solito spiritoso.
“Chiedetelo all’insegnante di Religione” rispondeva Coriolano imperturbabile, pulendo la lavagna con grande accuratezza.
“E cos’è la reazione aurea…” domandava di norma il più vispo della classe, incuriosito dall’aggettivo “aurea”.
“Non saprei, sarà forse un fenomeno alchemico, ma per notizie sulla “sezione aurea” rivolgetevi al professore di disegno: vi parlerà dei templi greci ed anche di Leonardo”.
Così Fibonacci diveniva subito un personaggio noto tra gli allievi della prima Liceo: lo trovavano persino simpatico perché, come i loro idoli televisivi, aveva conquistato il successo con poco sforzo, grazie ad un banale giochetto di numeri.
“E’ semplicemente il principio della leva – diceva tra sé il Professore quando sentiva i suoi studenti parlare con ammirazione di cantanti, veline o piloti da gran premio – applicando uno sforzo minimo all’asse infinito dei mass media si ottengono risultati straordinari: questa è la realtà di oggi… e pensare che tu, caro il mio Fibonacci, per essere celebre non hai dovuto neppure partecipare ad un reality!”.
La scuola, pur così mal ridotta e in balia del demone riformista, continuava ad appassionare Coriolano come nei primi anni d’insegnamento. Si divertiva ancora quando negli occhi dei suoi studenti, incapaci di risolvere un esercizio alla lavagna, vedeva baluginare l’espressione di rabbia mista a vergogna con cui si dichiaravano sconfitti, oppure osservava i loro cervelli sotto pressione durante un compito in classe: talvolta aveva persino la sensazione di sentire davvero un ronzio vorticoso di rotelle.
A fine anno, comunque, con la sua ironica severità, riusciva quasi sempre a portare tutta la classe ad un livello di preparazione dignitoso: questo, a suo avviso, era il traguardo “minimalista” ma possibile che ogni docente doveva proporsi di raggiungere. E questo era il motivo per cui veniva considerato, da colleghi e genitori, un ottimo insegnante.
Coriolano, terminate le lezioni, si incamminava verso casa, un dignitoso appartamento di cinque vani posto al penultimo piano di una palazzina anni ’60. Non andava mai di fretta: abitava da solo e nessuno lo attendeva per mettersi a tavola. La moglie Marcella era morta ormai da sette anni e la figlia Ada viveva all’estero, tuttavia la mancanza di compagnia non lo intristiva: consumava il pranzo che gli aveva lasciato in caldo la fedele domestica ad ore e poi si metteva a correggeva i compiti, preparava la lezione del giorno dopo, elaborava un “piano di attacco” personalizzato per gli studenti che tentavano di resistere alla sua azione educatrice, rileggeva qualche classico amato in gioventù, ascoltava buona musica, telefonava ad un parente o ad un collega, dormicchiava, guardava un po’ di televisione e, di solito non si annoiava. Certo avrebbe preferito avere un genero con cui conversare, dei nipotini da portare a passeggio, ma Ada, fin da bambina, era stata un’anticonformista ribelle.
La propensione per la matematica è una dote che si eredita, lei però aveva preteso di fare il Conservatorio e, da quasi un decennio, suonava come violino di fila in un’orchestra di Melbourne. L’Australia, è noto, si trova agli antipodi e, con questa scusa, non era più tornata a trovare i genitori. Neppure quando alla madre avevano diagnosticato un tumore.
“Ada diceva di odiare la matematica per farmi dispetto – pensava a volte Coriolano – ma la musica, la musica non è forse matematica pura, armonia di rapporti numerici?”.
Nonostante i dispiaceri familiari e l’incipiente maturità, il Professore si considerava comunque un uomo fortunato ed affrontava con serena rassegnazione la vita.
Ultimamente però un problema lo turbava. Al piano superiore abitava da sempre una coppia di impiegati delle poste, i Livoni, gente tranquilla con cui intratteneva ottimi rapporti. La moglie era stata addirittura amica della vicina: di certo si confidavano i dispiaceri causati dalla rispettiva prole, le continue ribellioni di Ada e le malefatte di Guido, il figlio dei Livoni, che non aveva preso neppure il diploma professionale e frequentava cattive compagnie.
I vicini, benché da tempo in pensione, non erano anziani e Coriolano rimase davvero turbato apprendendo la notizia della loro improvvisa morte in un incidente stradale. Il giornalista della televisione locale aveva sadicamente sottolineato che, per recuperare i corpi incastrati sotto un Tir, i pompieri si erano serviti addirittura di una gru.
“Sono cose che succedono di continuo” ripetevano i casigliani per le scale e al funerale, ma a Coriolano sembrava una fine davvero orrenda e precoce. E poi andarsene così, dopo un’esistenza avara di soddisfazioni, senza lasciare un segno, qualcosa di buono su questa terra, era come non essere mai vissuti. Almeno la sua Ada era una brava musicista e, nella lontana Australia, aveva messo al mondo due meravigliose bambine, benché di padri diversi.
Il dolore per la scomparsa dei vicini fu però subito lenito dal repentino ritorno a casa della pecora nera della famiglia, Guido, divenuto unico proprietario dell’appartamento.
Quando i genitori erano in vita non si vedeva mai ed infatti, dopo quasi vent’anni, il Professore faticò a riconoscere nell’uomo barbuto incontrato casualmente per le scale, carico di valige e pacchi, il ragazzaccio di un tempo.
“Pensavo che avresti venduto l’appartamento” disse Coriolano.
“Macché, professò, ‘na casa così chi la molla! Peccato che i vecchi hanno scassato la Ford, perché anche la macchina mi serviva proprio – rispose l’orfanello, visibilmente rattristato per la perdita subita – Sa, hanno fatto davvero un macello, neppure la ruota di scorta era intera. Una vera frittata, Professo’!”.
Coriolano comprese subito che la convivenza con Guido non sarebbe stata gradevole.
Il giovanotto si manteneva con piccoli lavori occasionali, forse non sempre del tutto leciti: si alzava a mezzogiorno, il pomeriggio si dilettava ascoltando al massimo volume musica “House” e la notte riceveva amici, talvolta dall’aria poco raccomandabile. Di tanto in tanto organizzava feste ‘danzanti’ e, ovviamente, non mancavano quotidiane presenze femminili con cui il giovanotto si intratteneva producendo un intenso scricchiolio di mobilia. E non solo in camera da letto.
In breve l’esistenza del Professore divenne un inferno.
Inizialmente Coriolano si lamentò con il responsabile di quel finimondo, ma Guido non intendeva cambiare abitudini, dopo tutto vivere come voleva era un suo diritto!
“Professò, io in casa mia faccio quello che mi pare…e qui sono a casa mia!” rispose irritato dalla “prepotenza” di quel vecchio che tanto gli ricordava il defunto padre rompiscatole.
“Però anch’io vorrei fare quello che mi pare, in casa mia – replicò Coriolano, appellandosi al noto principio A=B quindi B=A – tanto per dire studiare, leggere, ascoltare la televisione, dormire, ma il tuo fracasso me lo impedisce”. Guido però non era un “loico”, diritti e doveri per lui non si distribuivano equamente nel mondo.
“Professò, i tempi cambiano, non so’ un ragazzetto e i grandi non mi possono più di’ “stai bòno, stai zitto, stai fermo”. E poi le due, le tre di notte non so’ mica un’ora che si disturba! Si informi, guardi fuori dalla finestra, c’è gente in giro come a mezzogiorno!”.
Rivolgersi all’Amministratore del Condominio fu ugualmente una perdita di tempo. Il condomino Livoni in effetti disturbava anche gli altri abitanti del palazzo ed il regolamento, notoriamente, imponeva il silenzio nelle ore notturne, ma in realtà non esistevano strumenti legali per impedire a chi che sia di fare il proprio comodo in un edificio privato.
“Presenti una denuncia alla Polizia” suggerì la Ragioniera Amministratrice che ogni anno succhiava al Professore una sostanziosa cifra per gestire, come affermava ad ogni riunione, “nel migliore dei modi” le faccende riguardanti il condominio.
Coriolano chiese consiglio ad un biscugino avvocato che, telefonicamente, lo scongiurò per amore della comune amatissima nonna Adelina di lasciare perdere.
“Credimi, Marcantonio, non vale la pena di andare per vie legali, così ci rimetti soldi e salute. E alla fine ti prendi il danno e l’uscio addosso. Dammi retta! Ed è anche inutile tentare con i vari sistemi di insonorizzazione, sono solo quattrini buttati via. Vendi, vendi subito e approfitta del momento in cui il “gorilla” va in vacanza, altrimenti l’appartamento te lo valutano una sciocchezza.”
Coriolano però non voleva lasciare la casa dove era entrato, al ritorno dal viaggio di nozze, giovane uomo pieno di speranze. Lì viveva in compagnia dei suoi ricordi e tra i piccoli oggetti, i mobili, i libri, le luci e le ombre di quel mondo sempre uguale si sentiva al sicuro. Il mese precedente, in un cassetto del guardaroba, aveva trovato un ago con un filo rosa pallido; di certo la moglie lo aveva usato per ricucire il bottone di una camicetta o di un vestito, era un segno del suo passaggio sulla terra che, di tanto in tanto, si manifestava e, per un attimo, dava a Coriolano l’impressione di non essere solo. Perché doveva andare via, svuotare gli armadi e la libreria gettare vecchi mobili malridotti, vestiti non più usati, scarpe sfondate, inutili annate di riviste accumulate in cantina, per entrare in una casa nuova, asettica e sconosciuta. La parola trasloco lo terrorizzava. E poi cambiare edicolante, fruttivendolo, barista, mutare le abitudini di decenni… dopo qualche settimana cominciò a pensare al suicidio. Sì, annientarsi era il solo modo per smettere di soffrire, dato che le possibili soluzioni alternative erano dolorose quanto la morte.
Decise quindi di fare testamento e prese appuntamento con il notaio di famiglia, il dottor Casimiro Traini.
Rosanna Bogo
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