Quando il signor S. arrivò sulla spianata, si trovò immerso in una densa foschia luminescente: decise di camminare in direzione della zona dove il chiarore sembrava più intenso; del resto non aveva altri punti di riferimento e, da quella parte, sentiva provenire un brusio confuso e un rumore come di piedi strascicati. Forse era una specie di punto di raccolta.
Non sapeva con certezza in che luogo si trovasse, ma una supposizione ragionevole, tra sé, l’aveva già formulata: l’ultima cosa che ricordava era un SUV nero che gli veniva addosso a velocità sostenuta. Aveva chiarissima in mente l’immagine della donna con i capelli rossi alla guida di quel bolide che si era schiantato contro la sua utilitaria. Indossava occhiali blu elettrico e la sua faccia matura ma affascinante, l’aveva vista molto, molto da vicino. Chissà se si sarebbero incontrati di nuovo, lì; perché era fuori dubbio che fosse morto e stesse per entrare in un Aldilà… chissà quale, dei tanti immaginati dai viventi, e forse anche alla signora era toccata la stessa sorte.
Percorse, avanzando incerto per la poca illuminazione, alcune decine di metri e si ritrovò accanto a degli sconosciuti, un gruppo di persone, se così si potevano ancora chiamare, in attesa: alcune impazienti, altre rassegnate, formavano una lunga fila che faceva capo ad un bancone, appena visibile in lontananza. “La Reception, ovviamente – pensò, con una punta di ironia S. – chissà come prosegue dopo la faccenda”.
Si meravigliava di non provare dolore fisico e, soprattutto, di non pensare con sofferenza alla famiglia, alla moglie, ai due figli che a in quel momento dovevano essere a tavola per cena (non lo aspettavano mai!); forse la notizia del suo incidente li aveva già raggiunti, interrompendo bruscamente la loro routine serale.
“Che ore saranno” si domandò, guardando l’orologio: era fermo. “Beh, tanto ora il Tempo non ha più importanza”
La fila scorreva piano, ma S. già vedeva bene il bancone, lunghissimo, e una ragazza che sembrava intenta a sbrigare delle pratiche; la nebbia intanto si era quasi dissolta svelando, a destra e a sinistra, per metri e metri, altre file di persone in attesa; qua e là qualche gruppetto chiacchierava, chissà di cosa.
Finalmente arrivò il suo turno.
“Il codice?” fece l’impiegata al banco, senza alzare la testa. Stava raccogliendo i fogli che aveva davanti e li infilava in un faldone, di certo era la pratica di chi lo aveva preceduto.
“Il suo codice!” ripeté con voce secca ed imperiosa: visto che la sua prima richiesta non aveva ottenuto risposta poteva permettersi di essere scortese. Alzò anche la testa, per guardare bene in faccia lo sfrontato che osava ostacolare il suo lavoro. Lo fissò dritto negli occhi. Era una femmina stupenda, aveva capelli biondo naturale, raccolti in uno chignon che lasciava libero il collo bianchissimo, ed una carnagione delicata, appena coperta da una morbida peluria dorata; il naso era greco ma tagliato da un artista, le labbra sottili e rosee. Il tutto completato da due orecchie con dei lobi che chiunque avrebbe mordicchiato con voluttà. E gli occhi! Due diamanti chiari, cangianti, con bagliori luminosi che, a fissarli, parevano volerti travolgere in un gorgo di ghiacci; sotto il maglioncino i seni pieni ondeggiavano ad ogni movimento. “Ma che gran bel pezzo di …” pensò S., eccitato da quella visione che avrebbe definito celestiale, ma in senso diverso da quello suggerito dalla situazione in cui si trovava.
“La vuol piantare di guardarmi così? Mi dia subito il suo codice!” fece la ragazza, evidentemente arrabbiata.
S. si scosse e, in un attimo, riprese il controllo di sé. La gente in fila mugugnava. Che figuraccia! Ma di che codice parlava, la bella fanciulla?
“Mi scusi, signorina, quale codice dovrei darle?”
“Quello della sua pratica, no? Altrimenti come faccio a trovarla?”
“Io non ho nessun codice di pratica.”
“E allora che cosa vuole?”. La ragazza sembrò andare su tutte le furie, il ghiaccio degli occhi era in tempesta, le labbra si strinsero, le unghie, corte ma laccate, luccicarono come artigli sotto la luce diffusa che illuminava il bancone.
“Me lo dica lei cosa devo volere. Io sono arrivato adesso. Non so dove mi trovo e credevo che questa fosse la ‘Reception’ o un Ufficio Informazioni”
“E’ arrivato adesso e si è messo in questa fila? Non ha visto i cartelli?”
“Quali cartelli?”
“Quelli all’ingresso, no! Se lei non segue i cartelli fa perder tempo a tutti”
Alle sue spalle in effetti la fila era cresciuta enormemente e molti protestavano per quell’intoppo imprevisto. La ragazza aveva parlato a voce tanto alta da farsi sentire anche da chi era a mezza fila. Alla faccia della Privacy. Se fosse stata una sua dipendente gliene avrebbe dette quattro, ma lì doveva abbozzare e rispose con una battuta.
“Mi scusi, ma pensavo che il Tempo qui non fosse più un problema, dato che abbiamo davanti a noi l’Eternità!”
“Ah, fa anche lo spiritoso, bravo! E’ la gente come lei che fa andare storte le cose e mette confusione. Deve fare la fila allo sportello M47, laggiù in fondo, a sinistra. E ora lasci libero il posto, tocca alla signora.”
“Vado, vado, però non è vero che ci sono cartelli all’ingresso. Stia sicura che protesterò” rispose S., brusco, tentando di vedere il cartellino della ragazza o almeno il numero della sua postazione al bancone. Non scoprì nessuna indicazione e, uscendo dalla fila urtò un signore che, visibilmente irritato dall’attesa, l’apostrofò con insolenza: “Il solito novellino. Arriva ora e subito crea dei problemi, ma se qui comandassi io…”
“Guarda che caos”, pensò S., incamminandosi nella direzione indicata dall’impiegata, “se le cose sono organizzate come dov’ero prima, rischio di non cavarne i piedi. Ma in fondo, cosa potrà mai importare se la mia pratica non procede, mi daranno una multa, inaspriranno la mia pena?”. Stranamente non si sentiva spaventato, prendeva la faccenda alla leggera, quasi fosse un sogno.
“Come faccio a essere così tranquillo – si chiese stupito dal suo stesso atteggiamento – dopo tutto sono morto. Ma forse proprio perché sono morto, penso che il peggio sia già passato. Ora però dove vado?”
In quel momento vide passare un giovanotto, indossava un luminoso completo color carta zucchero e portava un rotolo di fascicoli sotto braccio. Doveva essere per forza un membro dello staff.
“Mi scusi, sono arrivato adesso…”
“Sì, mi dica.” L’impiegato si era fermato. Sembrava un tipo cortese e disponibile.
“La sua collega, laggiù, la biondina con gli occhi di ghiaccio” e indicò con la mano verso la fila alla sua destra “mi ha detto che devo andare allo sportello M47, ma io qui non vedo indicazioni…”
“Macché collega” esclamò il giovanotto, irrigidendosi “vuole scherzare? Al bancone ci sono i dannati, altro che colleghi! E quello lì, perché è un lui e non una lei, in particolare era un politicante da strapazzo e un gran porco, ci provava con tutte le stagiste…così Lui ha deciso di farne uno schianto di figliola condannata a subire gli sguardi vogliosi di tutti e a lavorare come banconista per l’Eternità. E pensi che quello è lo sportello dell’Ufficio Reclami!”
“Come sarebbe a dire, Ufficio Reclami? Ci sono dei reclami anche qui?”
“Ma certo, qualche minuto fa proprio lei non minacciava ‘la signorina’ di fare reclamo? Lei, anzi, lui però è un furbone, ha fatto finta di arrabbiarsi e invece di registrare la sua protesta con un codice nuovo l’ha spedito allo sportello accettazione M47″
“E lei come fa a saperlo?”
Il tizio sorrise, beffardo. “Scherza?, noi qui sappiamo tutto di tutti immediatamente. Lo sportello M47 è il 74-esimo a sinistra partendo dal prossimo; non può sbagliare!”. Il giovane se ne andò in gran fretta ripetendo tra sé “Bella biondina davvero… questi novellini che ingenui!”
“Pensavo di aver paura, qui nell’Aldilà, ma tutta questa burocrazia mi ricorda fin troppo la Terra ” pensò S., spostandosi senza perdere il conto delle file.
Mentre si dirigeva verso la sua nuova destinazione, quasi inciampò in un piccolo tavolino; si fermò per dare un’occhiata. Appoggiato sul piano vide un bel cartello colorato in cui si affermava che lì, tutti facevano del loro meglio per rispondere al Livello di Sevizio stabilito dalla carta del cliente consultabile all’Ingresso (ma dove era, l’Ingresso?). Per eventuali reclami occorreva compilare l’apposito modulo accanto al cartello. La notizia lo rincuorò, da defunto a cliente il passo era notevole, si avevano ben altri diritti!
Sul tavolo c’era però solo un modulo, una fotocopia sbiadita appena leggibile e nel portapenne nessuna traccia di strumenti di scrittura. “Così hanno risolto il problema – pensò S. – proprio come in certi uffici della Terra o negli autobus cittadini. Nessuno si azzarda a usare l’ultimo modulo, di rado portiamo in tasca una penna e così sembra che tutti siano contenti dell’alta qualità dei servizi ricevuti.” Certo, se anche Lui era costretto ad adottare questi metodi, S. cominciava a dubitare della bontà della Sua Organizzazione.
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“Dovrei essere arrivato alla meta” pensò S., superando la settantatreesima fila. Lo confortò nella sua convinzione l’abbigliamento, vario e a volte strano, delle persone che si trovavano già in coda.
S., al momento della “partenza” stava rientrando a casa dall’ufficio ed indossava giacca e cravatta, ma nella fila c’erano molte persone anziane in pigiama o camicia da notte, signore eleganti reduci da una festa, qualche operaio in tuta e senza casco, vecchi grassi completamente nudi e, proprio davanti a lui, un barbone completamente sbronzo e senza scarpe; tutti avevano un aspetto smarrito e si guardavano intorno disorientati, timorosi di rivolgere la parola al vicino di fila temendo di avere una conferma dei loro sospetti riguardo al posto in cui si trovavano. Nessuno accennava ad una preghiera o a gesto di devozione; tutti se ne stavano lì come aspettassero di riscuotere la pensione o imbarcarsi per New York, mancava solo il distributore dei numeri.
“La tecnologia qui è un po’ arretrata ” pensò S., poi però si disse che doveva essere meno spiritoso perché tutti gli ‘addetti ai lavori’ carta da zucchero potevano leggere i suoi pensieri.
Il tizio davanti a lui, l’ubriaco, lo aveva osservato, di sottecchi, un paio di volte, poi si era fatto coraggio, pensando che un signore così ben vestito potesse avere più informazioni di lui sulla ‘procedura’.
“Secondo lei mi prenderanno lo stesso?” chiese ad S., accennando con un solo gesto sia alla scarsa pulizia dei suoi pantaloni e della sua camicia a scacchi che alla mancanza di scarpe.
“Le scarpe se le sono prese i miei compagni di baracca, quando si sono accorti che ero morto, tanto, avranno pensato, non mi servivano più.”
“Non credo che si debba preoccupare – rispose conciliante S., tenendosi a distanza dal barbone non per albagia ma per evitare l’odore nauseabondo che emanava dai suoi vestiti, pieni di macchie, di rigurgiti e di chissà che altro.
“Qui siamo tutti uguali, almeno così si diceva di là: se le hanno permesso di arrivare fin qui senza fare storie, vuol dire che va bene così e non si deve preoccupare per il suo aspetto.” Cercò in tasca qualcosa per rincuorare il poveretto, ma non aveva con sé caramelle o gomme, però trovò il suo pacchetto di sigarette: “Ne prenda una, aiuta a passare il tempo e ormai, non può più farle male” disse all’ubriaco aprendo il pacchetto; ne accese una anche per sé. Fumare senza avere più sensi di colpa o sentirsi minacciati da terribili malattie era di nuovo un vero piacere.
Qualcuno nella fila protestò debolmente, infastidito dalle nuvolette di fumo che si spandevano spinte da una piccola corrente d’aria, ma il signor S. e l’ubriaco facevano orecchie da mercante, continuando a tirare boccate voluttuose. Quando arrivò il loro turno avevano finito il pacchetto.
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“Signor S., buon giorno, siamo contenti di averla tra noi” lo accolse sorridendo l’addetto al bancone. “Prendo subito la sua pratica, attenda solo un attimo…” E si allontanò verso una porta girevole dalla quale uscì, poco dopo, con alcuni fascicoli.
“Ecco qua, questa è la documentazione che deve consegnare al collega, un Funzionario che troverà nella stanza accanto, venga, passi oltre il banco” disse sollevando una parte mobile del piano per farlo passare. “Vada in fondo a questo corridoio, a destra, si deve fermare alla prima scrivania che trova vuota.”
“Ecco, prenda anche questo modulo, lo compilerà davanti al collega. A me deve solo rilasciare questa liberatoria. Firmi qui, Grazie… Ora passo ad un altro nuovo arrivato.”
Stupito dalla vivacità dell’impiegato e dalla sua alacre efficienza, S. era rimasto muto; nel prendere gli incartamenti, ringraziò e, per un attimo, fu tentato di stringergli anche la mano, poi gli parve inopportuno “Chissà, se anche lui è un dannato” e si avviò lungo il corridoio. Alle sue spalle senti che l’impiegato gli rispondeva con uno squillante, quanto malinconico, “Sì”.
Non fece molta strada, la terza o quarta scrivania nell’immenso open-space era libera. S. si mise seduto e appoggiò la sua pratica sul tavolo. Davanti a lui comparve come dal nulla un ometto di mezza età, quasi più grasso che alto, con un testone calvo e occhialini di metallo dorato.
“Buongiorno signor S., allora siamo arrivati!” esordì cordiale, sedendosi a sua volta in una poltroncina. “Vediamo un po’ la sua pratica” e allungò la mano verso le cartellette. “Sa, adesso devo darle l’Assegnazione.”
“Sarebbe?” chiese S., tanto per rompere il ghiaccio, ma già intuiva di cosa si potesse trattare.
“Beh, io adesso vedo rapidamente i fatti salienti della sua vita, le cose buone e quelle meno buone, valuto il tutto, e poi decido dove e come dovrà passare il suo Tempo.”
“Allora lei è un Angelo, una specie di San Michele personale incaricato di pesare la mia anima?” chiese S., curioso di capire fino a che punto le storie che gli avevano raccontato fossero vere.
“Ma che angelo e angelo, Dio ne scampi!” esclamò l’ometto rabbuiandosi di colpo e facendo cadere rumorosamente la pratica sul tavolo. “Quei piccoli bastardi ruffiani, perché un po’ di tempo fa sono stati i leccapiedi del Capo, hanno messo in giro la voce che sono loro che decidono e lavorano. Ci mancherebbe altro! Sono quattro gatti, spocchiosi e scansafatiche, vanno bene per una sfilata o per qualche evento speciale; ma per il lavoro, creda a me, per il lavoro ci siamo noi, altro che storie. E senza di noi, cari ‘ANGELI’ la baracca non andrebbe avanti!” L’ultima frase l’aveva detta a voce alta, per farsi sentire bene in tutto l’immenso stanzone.
S. si agitò sulla poltroncina, era preoccupato, forse aveva fatto una gaffe e magari poteva passare un bel guaio, un guaio Eterno.
“S’intende che noi seguiamo le norme” aggiunse il Funzionario, aprendo un cassetto da cui estrasse un grosso volume scritto fitto, fitto “È tutto qui dentro, le regole, le eccezioni, i casi particolari, la parte attuariale per i calcoli della permanenze nelle varie posizioni… Questo l’ha dettato direttamente Lui, e lo aggiorna in continuazione, se noi ci atteniamo alle norme non possiamo sbagliare. E se anche ci fosse un errore“ e guardò il signor S. dritto negli occhi “ … ma non ci può essere…” e continuò “se pure per accidente ci fosse un solo errore allora Lui in persona, immediatamente provvederebbe alla correzione. Opera come Supervisore, ed è rapido e infallibile.”
“Allora anche lei è un…” fece il signor S., indugiando nel pronunciare la definizione, per evitarsi un altro guaio.
“..un dannato, certamente.” fece l’ometto “ex direttore di una succursale del banco dei Medici nelle Fiandre, centinaia di anni fa”
“Come centinaia di anni?”
“Certo, ma che crede, qui siamo miliardi, sa! E dobbiamo adeguarci, non so più neanche io quanti corsi di aggiornamento ho fatto, con quei signorini in completo carta zucchero, ci tengono nelle loro ‘aule di formazione’ per settimane. Fa parte della punizione, sa…” abbassò un attimo la testa, guardando per terra. “Insomma, io all’ultimo corso al Docente l’ho detto papale, papale: tu ci racconti tutte queste novità, ma sul campo ci stiamo noi, siamo noi che prendiamo le decisioni e tu come si fa un’Assegnazione dal vero non l’hai neppure mai visto… e non la sapresti fare, però pretendi d’insegnarcelo! Avesse visto come schiumava dalla rabbia! Se lo sapesse il Capo…”
“Perché, il Capo non sa tutto?”
L’ometto parve un po’ preoccupato per quanto aveva detto: “Il Capo lo sa, certo che lo sa, ma qualche volta fa finta di non sapere… Poi, è un bel po’ che non si vede…”
“Come, non si vede? E dov’è andato?”
“A dire la verità – e l’uomo si avvicinò alla scrivania, facendo cenno al signor S. di fare altrettanto – a dire la verità è un pezzo che non si fa vedere. Ha organizzato la baracca, ha visto che funzionava in maniera decente e ha lasciato tutto in mano a Quell’Altro, sa… Ora qui c’è solo l’Altro e, in effetti è lui che comanda”
“Vuol dire che qui non comanda Lui, ma Quell’Altro?” chiese, sbalordito, il signor S.
“Proprio così, anche con quelli della Terra, quando sente che cercano Dio, si fa avanti lui e dice che Lui non c’è, però se può essere utile …è un tipo molto disponibile”
“Allora tutto è in mano a Quell’Altro?” S. si appoggiò, stupito, contro lo schienale della poltroncina.
Il funzionario cercò di fare marcia indietro, si era spinto un po’ troppo avanti nelle sue confidenze però, ormai, anche il signor S. faceva parte della grande famiglia e prima o poi avrebbe scoperto la verità.
“Ma no, non intendevo dire che Lui non c’è più ! Ecco, si potrebbe dire che è temporaneamente in vacanza, e Quell’Altro lo sostituisce come responsabile delle funzioni operative quotidiane. Però il Capo rimane Lui, e sa sempre e immediatamente tutto quello che succede.”
“Ma Lui ora dov’è?”
“Ecco, per quanto ne so” e si avvicinò di nuovo alla scrivania, abbassando la voce “un mio zio, che al tempo aveva dei rapporti diretti con Quell’Altro” e quasi in un bisbiglio fece “Sa, fu bruciato sul rogo per stregoneria… Beh secondo mio zio, se ne è andato.”
“Andato? Andato dove?”
“Pare che questa Terra non gli piacesse più, gli umani non erano venuti come sperava, addirittura aveva pensato di distruggere tutto … e rifarlo da cima a fondo”
“Ma come, distruggerci tutti?”
“Beh, se ci pensa bene, questo mondo è Lui che l’ha fatto e quindi può anche disfarlo, se vuole. Non le pare?”
“Insomma, Quell’Altro sembra sia riuscito a convincerlo a lasciare le cose come stavano, gli ha promesso di occuparsi di tutto con la sua organizzazione, e ha preso in carico la gestione, nel Male e nel Bene. A Lui non è parso vero e se n’è andato. Siccome può essere onnipresente, non fa molta differenza, ma formalmente qui Lui non c’è più. E’ un tipo testardo, dicono che stia creando un Universo dopo l’altro, per vedere se, alla fine, uno gli riesce davvero perfetto. E siccome ha tutto il tempo che vuole a disposizione, prima o poi raggiungerà il suo scopo.”
Il Funzionario sorrise, gli piaceva chiacchierare con i nuovi venuti, era la sola distrazione che poteva permettersi per l’Eternità.
“Ma torniamo a noi, facciamo un po’ di conti” disse estraendo da un cassetto un fascio di moduli, un lapis e una gomma. Cominciò a scorrere i fogli delle pratiche, trascrivendo cifre e note. Di tanto in tanto consultava il librone, per essere sicuro di attribuire il giusto valore ai dati in suo possesso.
Il signor S. trovava quei calcoli noiosi e cominciò a guardarsi intorno.
“Signor S. è qui?” sentì qualcuno chiamare il suo nome, era la voce di una donna. “Signor S., mi sente?” dal corridoio stava arrivando di corsa, ondeggiando sui tacchi a spillo, la dannata che aveva incontrato al bancone, appena arrivato. Aveva un foglio in mano. “Questo è il suo reclamo, signor S., lo deve firmare. Ma Signor S. mi vuole ascoltare!”
“Mi sente, signor S.”
S. non rispose, era distratto: stava al solito sbirciando nello scollo del maglioncino della biondina. Le rotondità dei seni furono la prima cosa che vide aprendo gli occhi. Era sdraiato sul letto e la ragazza, piegata su di lui, gli stava sistemando il cuscino sotto la testa; avvertì il suo profumo tutt’altro che infernale: lavanda. Improvvisamente sentì un gran dolore in tutto il corpo, era a pezzi, non riusciva a muoversi. Aveva una flebo infilata nel braccio e dei fili che lo collegavano a una macchina.
“Signor S. mi sente?” chiese di nuovo la ragazza.
“Sì” rispose S. e la voce gli uscì fioca, quasi impercettibile.
“Oh, finalmente è tornato tra noi! Non si affatichi a parlare. E’ in rianimazione da qualche giorno ma non si trova in pericolo di vita, però non aveva ancora ripreso conoscenza. Ora va tutto bene.”
“Grazie, io vorrei…” mormorò S.
“Non si agiti, avvertiamo subito i suoi familiari.”
L’infermiera era molto carina, bionda, bionda, i capelli raccolti in uno chignon, gli occhi celesti, chiarissimi; il signor S. la seguì affascinato, mentre lei gli spostava delicatamente il braccio e cambiava l’inclinazione del letto.
“Ora è privo di forze, non faccia nessun movimento, per qualsiasi cosa suoni il campanello che ha in mano ed io verrò subito.”
L’infermiera si avviò verso la porta e il signor S. non poté fare a meno di fissare l’ondeggiare del suo sedere tondo che la cintura dell’uniforme, ben stretta ai fianchi, metteva in evidenza.
“Che diavolo di donna!” pensò, con desiderio. L’infermiera in quel preciso istante si voltò, gli sorrise; nei suoi occhi azzurri S. notò fiammeggiare un turbinio di ghiaccio.
In fila,Dr J. Iccapot